Martedì, 11 Luglio 2023 07:17

Lettera al Direttore. Sulla morte di Nahel M. In evidenza

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Caro Direttore,
Ciò che è successo la mattina del 27 giugno a Nanterre, periferia a Nord-Ovest di Parigi, non è niente di nuovo nella storia della Francia degli ultimi decenni. Anzi, è l'ennesimo episodio di violenza gratuita da parte di un esponente delle forze dell'ordine ai danni di un cittadino francese di origine araba o africana della profonda periferia di una grande città. 

Franco-algerino di 17 anni, Nahel M., è stato ucciso a sangue freddo da un poliziotto stradale mentre era alla guida di un’auto. Era senza patente, ma non stava guidando con l’intenzione di fare del male, come inizialmente dichiarato dalla polizia, dichiarazione smentita questa volta da un video che ha fatto il giro di mezzo mondo. All’omicidio sono seguiti giorni di sobbugli, proteste e disordini in molte città francesi, che in parte faticano ancora oggi a sedarsi. Sembra di rivivere una versione europea di ciò a cui abbiamo assistito negli USA il 25 maggio 2020 in seguito all'omicidio dell'afroamericano George Perry Floyd  a Minneapolis (Minnesota). In quel caso, una forte ondata di rabbia e indignazione si fece così violenta che arrivò a devastare tutto ciò che incontrava: auto, negozi, cassonetti e tutti i simboli del colonialismo, statue incluse. Ne è nato un movimento, il Black Lives Matter, al tempo dei fatti  il presidente degli Stati Uniti si chiamava Donald Trump. La Francia di questi giorni sembra sia scivolata nello stesso incubo.

La domanda che mi pongo oggi è: da dove ha origine questa rabbia collettiva? Perché la morte ingiusta di un cittadino fa esplodere una buona fetta della popolazione delle periferie? Come si spiega un fenomeno di identificazione collettiva con la vittima a poche ore di distanza dai fatti? Contrariamente a quanto dichiarato dalla madre di Nahel, che ha isolato l’episodio a un singolo evento nel tentativo di trovare credibilità presso l’opinione pubblica, è ben noto che fenomeni di razzismo e di violenza gratuita da parte delle forze dell’ordine francesi nelle periferie sono radicati ed endemici. Regolari controlli si trasformano troppo spesso in vere e proprie “battute di caccia” in cui viene ostentato un uso spropositato della forza da parte della polizia, col solo intento di umiliare e brutalizzare la vittima.

Gli Stati Uniti e la Francia hanno alle spalle una storia lunga e dolorosissima di colonialismo e schiavitù che affonda le sue radici tra XVI e XVII secolo. Questa storia ha creato negli immaginari di quelle società un'idea razzista del genere umano secondo cui alcune popolazioni sarebbero destinate a dominare altre solo in nome di alcuni tratti somatici e culturali. Si tratta del cosiddetto suprematismo bianco, tornato recentemente in auge grazie ad alcuni esponenti politici della destra conservatrice. Non le proporrò tuttavia un’analisi storica o economico-sociale, statistica o sociologica, che, sebbene utilissima, non aiuterebbe, a mio modo di vedere, a capire il cuore del problema. La letteratura invece, come il cinema, offrendo una versione alternativa alla storia ufficiale e falsamente “oggettiva”,  permette al lettore/spettatore di mettersi nei panni dell’altro, del diverso, e di osservare i fatti da un altro punto di vista. Per capire gli episodi che sconvolgono la Francia di oggi, potrebbe essere di aiuto la visione di due film che ritengo paradigmatici: La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (1966) e L'odio, di Mathieu Kassovitz (1995). In quest'ultimo caso la trama del film è così vicina ai fatti di cronaca degli ultimi giorni, che non è difficile farsi un'idea del perché di tanta rabbia collettiva. È la storia di tre amici, Vinz, Huber e Said, un ebreo, un africano e un arabo, di un’anonima periferia di Parigi, alla ricerca di autoaffermazione e rivalsa dalla posizione di marginalità in cui la loro condizione socio-culturale li ha costretti. Vorrei brevemente rievocare due scene che mi sembrano molto significative. Una si svolge nella camera di Huber, in cui si intravede, appesa al muro, la mitica foto delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, dove Tommie Smith e John Carlos alzano il pungo in guanto nero, in segno di solidarietà con la battaglia per i diritti civili degli afroamericani che imperversava negli USA di quegli anni. Un simbolo di lotta che ha caratterizzato tutto il Novecento. Huber, pur non sapendo aiutare la sorella a fare i compiti ed essendo probabilmente poco e male scolarizzato, è consapevole di quel simbolo e lo fa suo. Confessa alla madre di voler lasciare il quartiere e andare altrove per cercarsi un avvenire. La seconda scena che vorrei richiamare è quando i tre amici si recano in centro città per una questione di soldi che Said deve regolare. Qui, i tre sono costretti a chiedere indicazioni a un poliziotto sulla via che stanno cercando. Il poliziotto li aiuta rispondendo in modo cortese. Said, rivolgendosi ai suoi amici con tono soddisfatto, esclama: “Avete visto? Qui sono gentili, mi ha dato del lei!”. Said si sente finalmente riconosciuto come un uomo, con pari dignità di tutti gli altri.  Questa scena tocca il delicato problema del riconoscimento del dominato da parte del dominatore, del figlio da parte del padre, tema su cui hanno scritto pensatori del calibro di Hegel e Freud, Foucault e Fanon. Ma, come le dicevo all’inizio, non ho intenzione di scomodare i mostri sacri del pensiero occidentale moderno, ma proporre una chiave di lettura dei fatti molto più essenziale. Ho pensato al film L’odio per il semplice fatto che si è rivelato tristemente profetico. Nell’ottobre-novembre 2005, a esattamente dieci anni di distanza dall’uscita del film, la periferia parigina, e poi di Lione, Marsiglia e molte altre città francesi, si incendiò a causa delle proteste per la morte di tre adolescenti della stessa età di Nahel, che, in fuga da una retata della polizia, si erano nascosti in un trasformatore ad alta tensione. Altri due episodi avevano esacerbato gli animi. Le dichiarazioni dell’allora Ministro dell’Interno, poi presidente della Repubblica tra gli anni 2007-2012, Nicolas Sarkozy che, facendosi paladino di una politica della “tolleranza zero”, aveva dichiarato che avrebbe ripulito le periferie dalla racaille, la feccia, utilizzando gli idranti ad alta pressione. L’esatto contrario del riconoscimento, ovvero la deumanizzazione. Un terzo episodio sarebbe stata la goccia finale. Durante la celebrazione della “Notte del Destino”, la 27a notte del mese sacro di Ramadan, durante la quale per i musulmani è stato rivelato il Corano, un lacrimogeno della polizia viene lanciato nella moschea di Clichy-sous-Bois, un comune del Dipartimento di Senna-Saint-Denis a Nord-Est di Parigi. Non è difficile immaginare che all’epoca quel comune divenne l’epicentro delle proteste. Anche qui ci sarebbe bisogno di una lunga parentesi dedicata alla storia dell’inurbamento nelle grandi città di folle di nativi provenienti dalle ex colonie francesi, principalmente Algeria e Africa occidentale, accolti con favore nella Francia del secondo dopoguerra per l’edificazione di quartieri residenziali inizialmente destinati alla classe media, ma trasformatisi presto in quartieri-ghetto, veri e propri simboli di marginalizzazione e microcriminalità, che avrebbero accolto le generazioni successive di quegli operai. Sono storie che, con le dovute differenze, anche in Italia conosciamo bene.

 Alla luce degli ultimi tragici fatti che hanno tolto la vita all’ennesimo adolescente di quelle periferie, mi chiedo:
1) Perché nelle banlieues un poliziotto si sente legittimato a sparare a distanza ravvicinata al torace di un diciassettenne di origine araba alla guida di un’auto?
2) Quando e dove, in un qualsiasi paese sedicente democratico, esponenti della polizia si abbandonano a questi episodi di violenza gratuita?

Una legge francese varata nel 2017 garantisce agli agenti della polizia di sparare contro un’auto in fuga, o quando in pericolo di vita. È evidente che l'effetto creato è stato quello di un maggior senso di impunità delle forze dell’ordine, soprattutto quando operano in determinate aree urbane connotate dalla presenza di popolazioni di origine africana. Qualcosa di simile è avvenuto anche in Italia, ricorda il G8 di Genova? Il caso Cucchi? Molti altri se ne potrebbero citare. Qualcuno ne ha parlato in un libro che non ha avuto la risonanza che meritava, dal titolo L’Eclisse delle democrazia (Feltrinelli, 2011). Sarà una coincidenza, ma in tutti questi casi italiani citati dominava un Governo di centro-destra e il Ministro degli Interni o della Giustizia era un esponente della destra conservatrice e xenofoba.

Il nostro è un paese di recente immigrazione, tuttavia anche in Italia abbiamo assistito a efferati fenomeni di razzismo ai danni di immigrati africani. Se ne potrebbero citare molti, mi limito a menzionarne uno per tutti, quello di Soumaila Sacko, immigrato malese ucciso con un colpo di fucile il 2 giugno 2018 in provincia di Vibo Valentia. Evidentemente gli italiani non sono tutti quella “brava gente” di cui spesso si parla. Anche in questo caso, per una tragica ironia degli eventi, lo stesso giorno in cui Soumaila veniva assassinato, l’allora Ministro degli Interni dichiarava che era finita “la pacchia” degli immigrati.

C'è tuttavia una profonda differenza tra questi casi e la morte di Floyd e Nahel. In Italia a questi episodi non sono seguiti scontri e rivolte violente per il semplice fatto che sono stati percepiti dalla popolazione come casi isolati. Solo una sensazione di forte ingiustizia e sopruso continuo e quotidiano può far esplodere quella rabbia apparentemente ingiustificabile. La stessa rabbia che, in certi casi, può far nascere episodi di terrorismo vero e proprio. Quando uno Stato super armato e super-potenza mi opprime, l’unica arma è la vendetta indiscriminata con qualsiasi mezzo, costi quel che costi. Pensi alla oramai lontana guerra di indipendenza algerina, alla situazione ancora di bruciante attualità in Palestina.
Il senso di rivalsa e frustrazione doveva assillare anche Nahel, che in arabo significa “colui che si abbevera”. Anche Nahel avrebbe voluto abbeverarsi alla fonte della conoscenza e del riconoscimento reciproco. Studiava per diventare elettricista, non era il teppista che quei poliziotti che l’hanno fermato e ucciso credevano fosse. Non gli è stato possibile realizzare il suo progetto a causa dello stigma di cui è stato vittima. Un popolo di stigmatizzati ha solo bisogno di riconoscimento, delle proprie tragedie personali e collettive, della propria identità, fatta anche da una religione diversa.

La componente religiosa riveste infatti un ruolo molto importante in tutta questa storia e l’esempio della provocazione alla moschea di Clichy-sous-Bois del 2005 ne è un esempio paradigmatico. Nella Francia laica e da bene, l’Islam è percepito come una religione che minaccia l’identità della nazione. I tentativi di controllarlo e piegarlo alle regole di un laicismo esasperato, che vorrebbe bandire i simboli religiosi nei luoghi pubblici, si sono ripetuti negli ultimi decenni, suscitando l’indignazione di una notevole fetta della popolazione, ma l’approvazione di tutta un’altra, la sola a sentirsi francese a tutti gli effetti. A seguito degli episodi di terrorismo a matrice islamica a cui il paese è stato sottoposto negli ultimi anni, il clima si è ancor più polarizzato. Se agli inizi degli anni 2000 una certa islamofobia strisciante si affacciava quasi timidamente anche negli ambienti accademici, oggi viene apertamente rivendicata passando ad un vero e proprio contrattacco.

Si pensi alle dichiarazioni della Ministra dell’insegnamento superiore e della ricerca Frédérique Vidal, che nel 2021 dichiarò di voler aprire un’inchiesta sulla presenza di un supposto “islamo-gauchisme” (islamismo militante di sinistra) da parte di alcuni ambienti accademici non schierati con una certa politica di demonizzazione islamofobica dell’Islam e dei musulmani. Fintanto che i tanti messieurs Dupont sentono minacciata la loro identità perché accerchiata dalla presenza e dalla religione del colonizzato, che oggi sembra si sia trasformato nel nuovo colonizzatore, questi resterà vittima di quel processo di deumanizzazione e stigmatizzazione subito anche da Nahel.

È un vero e proprio cortocircuito sociale. La catena si spezzerà solo quanto si getterà la maschera della paura e la Francia accetterà di abbandonare quel modello a doppio binario da società post-coloniale, le cui tragiche conseguenze sono ancora sotto gli occhi di tutti.

(firmato Paolo La Spisa Firenze, 10 luglio 2023)