Il documento ufficiale discusso alla Camera dei Deputati per la regolamentazione degli Home Restaurant. Anche nella nostra città e sul nostro territorio è un fenomeno che si è largamente sviluppato, ma che manca ancora di una precisa regolamentazione. -
Parma, 26 gennaio 2016
La scorsa settimana durante la X^ Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati si è aperto il dibattito sul tema dell'Home Restaurant. Nel corso dell'audizione, alla quale hanno partecipato il presidente nazionale, Esmeralda Giampaoli e il direttore nazionale Fiepet Confesercenti, Tullio Galli, sono state ribadite le posizioni della Fiepet, relativamente alla indispensabile equiparazione delle regole che mettano sul piano della parità sia gli operatori professionali sia i soggetti che intendono esercitare questa attività di SOCIAL EATING, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di carattere igienico-sanitario, fiscale e di professionalità imprenditoriale, e tenuto altresì conto della risoluzione del Ministero dello Sviluppo Economico sull'argomento in questione.
Di seguito il documento ufficiale, consegnato agli atti, che compendia la posizione della Fiepet con la proposta di regolamentazione legislativa di questa disciplina.
Il fenomeno "Home restaurant", dal punto di vista giuridico, è attualmente privo di una propria disciplina, e ciò comporta seri problemi di ordine concorrenziale, sanitario e fiscale.
E' per questo che FIEPeT-Confesercenti ha commissionato al CST, Centro di Studi Turistici, un'indagine sulla rilevanza del fenomeno, le cui risultanze rivelano come l'universo degli Home restaurant in Italia abbia generato nel 2014 introiti pari a 7,2 milioni di euro, con il primato della Lombardia (con una quota di circa 1,9 mln di euro, pari a oltre un quarto del fatturato totale), ma introiti oltre il milione di euro anche nel Lazio (1,4 mln) e in Piemonte (1,1 mln); nello stesso anno sono stati proposti circa 86mila eventi di "social eating", con la partecipazione di circa 300mila persone, che hanno sostenuto una spesa media stimata di 23,70 euro pro-capite, per un incasso medio per singolo evento pari a 194,00 euro. Sono risultati attivi più di 7mila cuochi "social", ognuno dei quali ha incassato in media 1.002,51 euro, con un trend in sicura crescita.
E' chiaro che tutto ciò comporta un'indebita concorrenza al settore della ristorazione tradizionale. Il rispetto o meno delle regole cui sono sottoposti gli operatori economici è infatti uno degli elementi che più qualificano il funzionamento dell'economia e ne determinano le capacità di sviluppo.
E le regole che caratterizzano le attività della ristorazione sono indubbiamente numerose e severe.
Basti pensare che, fin dal suo avvio, un'attività di somministrazione di alimenti e bevande viene limitata da parametri di vario genere, fino a poco tempo fa finanche di tipo strutturalmente regolatorio, mediante distanze e contingenti numerici, oggi di tipo qualitativo, in ossequio all'art. 64 del D. Lgs. n. 59/2010, con cui è stata recepita la Direttiva "Bolkestein".
Questo prevede, infatti, che i comuni, nelle zone del territorio da sottoporre a tutela, possano adottare provvedimenti di programmazione delle aperture degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico: tale programmazione può prevedere, sulla base di parametri oggettivi e indici di qualità del servizio, divieti o limitazioni all'apertura di nuove strutture, quando ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità rendano impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi di controllo, in particolare per il consumo di alcolici, e senza ledere il diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità.
Inoltre, per esercitare l'attività, il titolare o un suo delegato devono possedere requisiti professionali che implicano la frequenza di corsi, il superamento di esami, il possesso di titoli di studio o una determinata pratica professionale prolungatasi e mantenutasi nel corso di alcuni anni.
L'esercizio deve rispondere a precisi requisiti sanitari, quanto alle misure e alle dotazioni di locali e attrezzature, come previsto dai regolamenti locali d'igiene. In particolare, devono essere presenti bagni per gli addetti e per i clienti, divisi per sesso, nonché per portatori di handicap.
L'attività deve rispettare la legislazione comunitaria e nazionale sull'igiene degli alimenti e la nuova disciplina sull'informazione e sulla pubblicità dei prodotti alimentari, che contiene stringenti regole sulla comunicazione relativa alla presenza degli allergeni nei piatti somministrati.
Dal punto di vista lavoristico il personale deve essere ovviamente in regola con le norme relative alle assunzioni, ai contratti collettivi nazionali di lavoro, alla formazione professionale, alla contribuzione previdenziale.
Infine, l'esercizio dovrà corrispondere quanto previsto dalla legislazione nazionale e dai provvedimenti comunali ai fini delle imposte e tasse e dei tributi locali, che prevedono onerosi versamenti per lo smaltimento dei rifiuti speciali e l'occupazione del suolo pubblico. Per non dire dei diritti relativi alla diffusione di musica da corrispondere a SIAE e società di collecting.
Tutto ciò, va immediatamente evidenziato, non riguarda l'attività di un Home restaurant, che non conosce limiti all'accesso, non deve formalmente rispettare norme in tema di requisiti professionali, di dotazioni strutturali, né la disciplina in materia di alimenti, non è assoggettata ai controlli degli Ispettorati del lavoro, non versa contributi previdenziali per il lavoro autonomo né per i dipendenti, diffonde musica d'ambiente senza versare diritti ad alcun Ente.
E' chiaro come i mercati e le imprese sottoposte a un eccesso di carico regolatorio, quando un numero non esiguo di operatori riesce a eludere tali regole, finiscano per subire effetti avversi.
Nel caso che ci occupa, quello che per qualche tempo era un mero fenomeno di costume si è presto trasformato in un business, poiché gli incontri gastronomici non si realizzano con il semplice strumento dell'invito a cena privato e/o del passaparola, ma sono organizzati mediante la rete internet e l'intervento di soggetti terzi che intermediano la prestazione, su veri e propri siti dedicati.
Tecnicamente, gli host (padroni di casa) si iscrivono al sito e propongono la data, un menù e un prezzo. Gli ospiti (guest) attratti dalla proposta, inviano una richiesta di partecipazione alla serata, e pagano la cifra stabilita dal proprietario di casa direttamente sul sito, che applica al prezzo una commissione a carico degli ospiti e invia l'incasso all'host.
Finora tutto ciò si è svolto fuori da ogni regola di diritto, in un ambito totalmente libero da un punto di vista amministrativo e fiscale, ma è ovvio che, quanto più un'occasione di puro intrattenimento assume i contorni di una vera e propria attività economica, tanto più necessita di una disciplina.
Per tali motivi, il Ministero dello sviluppo economico, rispondendo al quesito posto da una Camera di commercio, che chiedeva informazioni inerenti l'apertura e la gestione di un'attività che si caratterizza per la preparazione di pranzi e cene presso un domicilio privato in giorni dedicati e per poche persone, trattate come ospiti personali ma paganti, ha emesso una Risoluzione (n. 50481, del 10 aprile 2015) che attualmente offre l'unica possibile chiave di lettura del fenomeno Home restaurant dal punto di vista del trattamento giuridico.
Il MISE ricorda anzitutto che la legge 25 agosto 1991, n. 287, sulla disciplina della somministrazione di alimenti e bevande, così come modificata dal D. Lgs. 26 marzo 2010, n. 59, distingue tra attività esercitate nei confronti del pubblico indistinto e attività riservate a particolari soggetti. Detta legge, all'art. 1, dispone in particolare che "per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto" che si esplicita in "... tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell'esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all'uopo attrezzati".
Ad avviso del Ministero, l'attività in discorso, anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un'attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto, sebbene i locali in cui i prodotti vengono preparati e serviti siano privati, sono comunque locali attrezzati aperti alla clientela.
Non si può infatti parlare che di clientela, dal momento che la fornitura delle prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo e, quindi, "anche con l'innovativa modalità, l'attività in discorso si esplica quale attività economica in senso proprio"; di conseguenza, essa "non può considerarsi un'attività libera e pertanto non assoggettabile ad alcuna previsione normativa tra quelle applicabili ai soggetti che esercitano un'attività di somministrazione di alimenti e bevande".
Pertanto, a parere del MISE, considerata la modalità con la quale i soggetti interessati intendono esercitare, devono applicarsi le disposizioni di cui all'art. 64, comma 7, del D. Lgs. n. 59/2010.
Ciò significa che, previo possesso dei requisiti soggettivi di cui all'art. 71 del D. Lgs. n. 59, detti soggetti sono tenuti a presentare la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) o a richiedere l'autorizzazione, ove trattasi di attività svolte in zone tutelate.
In definitiva, in linea con quanto affermato dal Ministero, per avviare un'attività di Home restaurant gli interessati dovrebbero:
- presentare i requisiti di onorabilità per l'esercizio di un'attività di somministrazione di alimenti e bevande;
- acquisire i requisiti professionali per la somministrazione di alimenti e bevande;
- presentare una SCIA o, per le zone tutelate soggette a programmazione, una richiesta di autorizzazione.
Non solo, trattandosi di attività a tutti gli effetti disciplinata dalle norme in materia di somministrazione di alimenti e bevande, l'interessato dovrebbe anche rispettare la normativa urbanistico edilizia e quella igienico-sanitaria.
E ciò porta con sé anche che, fino ad un'eventuale diversa disciplina, l'attività andrebbe considerata attività d'impresa, con l'obbligo di iscrizione al Registro delle imprese e gli adempimenti di tipo fiscale e contributivo.
In mancanza, l'attività esercitata dovrebbe essere considerata abusiva, con l'applicazione delle consequenziali sanzioni.
Nella pedissequa applicazione di tale interpretazione, ovviamente, l'esercizio di un Home restaurant quale attività che sfugge alle norme di settore della somministrazione di alimenti e bevande sarebbe impossibile: ma la conseguenza è inevitabile, se chi intende svolgere l'attività in questione lo fa con caratteristiche che travalicano l'aspetto dell'occasionalità, realizzando piuttosto un business in diretta - e sleale - concorrenza con le imprese che tale attività svolgono professionalmente e nel rispetto di regole (come si è visto) stringenti e onerose.
Pertanto è necessario, a nostro avviso, che il legislatore intervenga, fissando i limiti oltre i quali un fenomeno di costume diventa attività d'impresa ed, in tal caso, prevedendo le regole che mettano sul piano di parità operatori professionali e soggetti che vogliono ritagliarsi un ruolo nuovo nel panorama della ristorazione ma che, se ciò intendono fare, devono farlo garantendo la sicurezza e la salute dei consumatori, competendo lealmente con chi organizza la propria attività secondo precisi dettami normativi, versando all'erario la propria parte di contribuzione, secondo canoni di proporzionalità, come vuole la Costituzione.
(Fonte: ufficio stampa Confesercenti Parma)