Di Francesco Graziano Bologna, 6 maggio 2024 - Premessa d’obbligo: “ Challengers” di Luca Guadagnino è un ottimo film da vedere perché tutto è confezionato a regola d’arte. D’altra parte il regista si è guadagnato sul campo i galloni di grande professionista portando a casa film produttivamente anche, forse, più difficili come il remake in chiave femminista di Suspiria che con l’originale film di Dario Argento poco ha a che fare.
Nell’opera del maestro de “ L’uccello delle piume di cristallo” le ragazze allieve dell’accademia, sono in balia di aguzzini che si ritrovano nelle fiabe che da bambini potevamo leggere. Fate caso ad alcuni particolari: nell’originale le attrici sono succubi dello spazio della misteriosa scuola di danza, quando devono aprire una porta la maniglia non è mai ad altezza di adulto ma è sempre quasi all’altezza dei loro occhi, proprio come se fossero bambine ancora poco cresciute, incapaci di dominare il mondo che le circonda. Fino all’ultimo siamo messi nelle condizioni di temere per la sorte della bravissima Jessica Harper, quasi una “ Carrie”, più cresciuta, deprivata dei suoi poteri che chiede di essere accettata nel mondo professionale che desidera, dopo essere scampata dalla società arcaica e retriva ammantata di progresso e opprimente che nel film di De Palma la circondava, ingabbiandola e impedendole di vivere fino in fondo il suo talento, la sua personalità, la sua visione del mondo, la sua sessualità. Nel film di Guadagnino tutto questo è assente, ed è la donna che domina dal primo all’ultimo minuto del film.
Ma torniamo all’opera che in questi giorni sta avendo il meritato successo, il regista di “ Call me by your name” ha avuto un sostegno produttivo importante; pur essendo italiano nella regia e nell’ottimo montaggio il film è americano con delle venature da cinema europeo che altro non rappresentano che le influenze cinematografiche dello stesso regista palermitano classe ’71. Più che ad una versione 2.0 di Jules e Jim di Truffaut a chi scrive, tra le tante influenze che sicuramente sono state inserite (ogni film richiede più di una visione) all’interno del mondo diegetico domina il maestro Bernardo Bertolucci, non a caso il cineasta di A Bigger Splash sta preparando proprio un documentario sul due volte premio oscar.
Perché Bertolucci? Non tanto per la presenza di un triangolo che si trova nel 99,99% dei film quanto per la scelta dello sport, e il cinema potrebbe tranquillamente essere considerato uno sport mentale che guida il racconto e la passione che i personaggi mettono in quello che fanno: il tennis, Il quale diventa metafora del cinema medesimo. Cos’è il tennis se non una sorta di discorso metacinematografico in chiave rigorosamente pop? I giocatori sono due ( certo, a volte anche quattro) proprio come sono due lo spettatore cinefilo, e Guadagnino lo è, essendosi per altro laureato in questa materia, e l’avversario da battere nella sua completezza che rappresenta il film che in questo momento si sta vedendo.
Come sanno i cinefili, una sceneggiatura non è un romanzo e lo spettatore è in un certo senso tenuto, di fronte ad un’opera aperta, a completare il lavoro per restituire un quadro dove non ci sia il minimo spazio bianco. Questo è il compito del tennista, capire la psicologia dell’avversario con cui si sta giocando, carpire i suoi punti deboli e chissà ( ma qui bisognerebbe chiedere a chi questo sport lo fa di professione) tentare dai suoi piccoli gesti di ricostruirne la storia personale tramite piccoli indizi disseminati lungo tutto un match, proprio come accade nei film, dove la scenografia da indicazioni su personaggi di cui non sapremo mai nulla del loro passato ma che potremo, se attenti a ciò che vediamo, ricostruire ciò che è successo loro.
Le assonanze con alcune opere di Bertolucci non finiscono certo qui, i personaggi sono caratterizzati da una libertà fisica che però – al contrario della generazione- che il regista dell’Ultimo imperatore racconta non ha nulla di trasgressivo.
Nel ’68 ci si spogliava per ribellarsi ad un sistema famigliare opprimente dove a dominare era quasi sempre la figura paterna che – come sostengono i pedagogisti più autorevoli – non era autorevole ma autoritaria. La voglia di amarsi del penultimo opus del regista parmense trova una sua ragion d’essere nel clima sociale che si respirava in quei giorni dove v’era la necessità di rompere dei tabù sociali retti sulla figura della – come detto- autorità paterna che in quel periodo ( già tre anni prima Bellocchio realizzò I pugni in tasca dove una famiglia intera veniva distrutta, in un delirio da pars destruens di stampo fascista, come fascista è il mitico Alessandro del primo indimenticabile film del regista di “ Rapito”) ancora era il pilastro della società su cui poggiava le basi la società occidentale. I tempi in cui la famiglia sarebbe diventata un’entità liquida come quelli d’oggi erano ben lontani da venire.
Discorso, questo assente in Challengers. I protagonisti mostrano il loro fisico come se finalmente la società avesse raggiunto una sua naturalità nel non avere più paura di mostrarsi completamente nudi non interiormente ma prima di tutto carnalmente. Naturalmente se ne può discutere ma questo rappresenta un punto debole, quando un protagonista da uno stato iniziale di stasi non si ribella contro un sistema sociale che pretende di controllare la sua mente o il suo corpo allora, che identificazione ci può essere?
I bravissimi attori di Challengers non hanno alcuna barriera da infrangere né di tipo politico o sessuale ma, mentre si trovano in una sauna, invece di parlare di film, di letteratura o di “ cultura alta” il centro della loro attenzione viene banalmente spostato su una ragazza che nel corso degli anni – e qui lo comprendiamo grazie alla bella sceneggiatura non lineare- i due si contendono. Un motivo di interesse che rimane poco sviluppato è il tennis come ascesa sociale, tipico di ogni bel film sportivo che qui possiamo ricordare: tra gli altri: “ Jimmy Grimble”; “ Il mio amico Cantona di Ken Loach”; il primo Rocky, dove Stallone racconta delle difficolta, attraverso il filtro della settima arte, capitategli nella sua vita prima di diventare famoso ( ad un certo punto sembrerebbe che Sly si fosse ridotto ad avere appena 106 dollari in banca, come racconta Tarantino nel suo trattato “Cinema speculation”; ) e allora ecco che il pugilato diventa un possibile volano per migliorare la propria vita e cambiare condizione sociale. O ancora Billy Elliot dove il protagonista combatte contro una famiglia della classe operaia in epoca Tacheriana affinchè possa realizzare i suoi sogni di diventare ballerino; Million Dollar baby dove accanto al pugilato viene trattato il tema morale ed etico alquanto spinoso dell’eutanasia. Pensiamo al classico di John Huston “ Fuga per la vittoria”, ambientato in uno dei momenti più tragici della storia mondiale.
Altro film dove la tensione non viene mai a mancare è Rush di Ron Howard dove in nome del terrificante principio dello “ show must go on” Nicky Lauda e James Hunt “ The shunt” devono scendere in un circuito che è provato essere pericoloso.
Ecco, questi conflitti in “ Challengers”, in ultima analisi, sono totalmente assenti. Interessante poteva essere battere l’accento su quanto il tennis potesse essere utile per proseguire gli studi universitari ma anche qui la strada che si preferisce prendere è un’altra.
loro a differenza dei loro coetanei di altre generazioni, il mondo sembra non esistere e allora ecco che si abbandonano a frasi che potrebbero pronunciare degli adolescenti.
Ogni discorso sulla paternità è assente, ogni ruolo nei confronti di una vita che cresce sembra non esistere più, nonostante Zendaya in qualche momento del film si mostra comunque una madre affettuosa.
Allora cosa rimane da fare ai tre? Alla vigilia di un match importante, la madre prende sulle spalle il compagno debole e va a letto con il suo avversario per farlo vincere.
Ogni motivazione di un possibile riscatto sociale, politico o intellettuale viene a cadere in nome del mantenimento dell’autostima di quello che è lo sposo, antitetico agli ambiziosi personaggi presenti nelle pellicole a carattere sportivo, della bravissima e sorprendete Zendaya.
Il film è comunque riuscito, probabilmente farà presa su un certo tipo di pubblico – quello dei 16-17enni- e probabilmente annoierà un poco gli spettatori più grandi e sgamati ma non possiamo non dirci orgogliosi di Guadagnino, un talento puro che dà la sensazione di dover realizzare ancora il suo capolavoro.