Ma Amir forse non vuole ricordare, preferisce dimenticare, e quando gli chiedo di raccontarmi cosa pensa dei fatti di cronaca che si susseguono in America e della morte di George Floyd, smorza la tensione con un sorriso e mi guarda dritta negli occhi con un misto di rabbia e rassegnazione.
Amir (è questo il nome di fantasia che abbiamo scelto insieme per raccontare) ha poco più di trent’anni, senegalese, da nove anni in Italia; è un ragazzo simpatico, molto intelligente, apprezzato e benvoluto da tutti coloro che sanno andare ben oltre l’apparenza e il pregiudizio, perché Amir per loro è solo Amir e non un immigrato di colore arrivato nel nostro Paese a depauperarne le casse.
Ho cercato di convincerlo a lasciarmi scrivere qualcosa su di lui, della sua condizione per intere settimane. Poi arriva George Floyd e il muro di ostilità e negazione alla mia richiesta si rompe, riesco a strappargli la promessa di un incontro e di solo poche domande.
Lo trovo puntuale lì, sul luogo dell’appuntamento, seduto sui gradini di un’assolata Piazza Duomo, vivace e animata, un’intermittenza brulicante di voci e di persone, sotto l’imponente cattedrale, incantevole emblema di questa città fatta di una bellezza riservata e smisurata. Dal centro della piazza s’innalzano fieri i due Leoni del Duomo che vigilano con aria supponente il vasto spiazzale che li circonda.
Qualcuno al mio arrivo a Parma mi ha spiegato come un leone fosse bianco e l’altro rosso per rappresentare la dualità della natura di Cristo, quella divina e quella umana, e che insieme sorreggessero le due colonne della cattedrale proprio come Cristo sostiene la sua Chiesa. Già a quei tempi rimasi colpita e al tempo stesso stupita dal fascino di questa Piazza, unione perfetta e armonica tra sacro e profano, divino e terreno. Saluto i due Leoni con lo sguardo e appena riconosco la sua sagoma mi avvicino, gli accenno un mezzo sorriso e mi siedo accanto a lui. Oggi piazza Duomo è piuttosto trafficata, fa molto caldo, come spesso succede nei pomeriggi di giugno in città, il mio amico indossa una t-shirt rossa e un jeans logoro, ha lo sguardo chino per terra e per un po’ ignora la mia presenza.
Ma oggi Amir è stanco, non ha molta di voglia di parlare, né di sorridere, ha dormito per l’ennesima volta per strada e seduto sui massicci gradini della cattedrale abbraccia le sue gambe chiudendosi a riccio.
Restiamo così per un po’, in silenzio... ho imparato col tempo a rispettare l’importanza di questi momenti in cui le parole sono solo intralcio, fanno solo peso e rumore. Poi senza preavviso irrompe in questo stato di attesa e di distacco con voce flebile e stanca.
- Vedi, l’amore deve passare non solo dalle orecchie, ma anche dal cuore. A volte mi capita di non cenare per due sere di fila e di dormire per intere settimane per strada, alla fine io sono un ragazzo normale, mi piacerebbe poter vivere come te e i tuoi amici. - mi dice con un italiano un po’ maldestro e insicuro.
Lo guardo mentre i suoi occhi si rabbuiano e capisco che la sua vita non è semplice come si sforza di far sembrare. Quando lo si incontra la mattina presto per la città con un sorriso che illumina le strade del centro e sorride a tutti - ma proprio a tutti - mentre dalla sua panchina fermo, scruta e studia la vita degli altri, la vita della città, quella vita che da tanto tempo per lui ha smesso di chiamarsi vita.
La morte di George Floyd forse gli ricorda questo, l’ipocrisia di un mondo che continua a dichiararsi progressista ed egualitario ma che in fondo resta ostile verso il diverso.
- Potrei scegliere di rubare o di spacciare come fanno i molti, ma non lo faccio… eppure non li giudico, non dovresti neppure tu, perché non conosci la fame. Ma oggi sono stanco e sono arrabbiato, l’amore non si dice, si crea, il razzismo non si denuncia, si combatte. -
Mi sento impotente difronte a tanta frustrazione, Amir è un ragazzo di bell’aspetto, istruito, intelligente; esplicitamente mi ha chiesto di non raccontare la sua storia, né come sia arrivato in Italia, ma lo conosco da quando sono arrivata in questa città e so quanto abbia sofferto la fame e il freddo in tutti questi anni.
Quando gli chiedo cosa succederà ora in America mi risponde - Che cosa non succederà più in America, è questa la domanda giusta da fare. -
Gli domando se in Italia avverte anche lui del razzismo e la risposta è quasi ovvia e scontata.
- È il pregiudizio che fa male, sei nero allora rubi, spacci, fai casino… tempo fa stavo facendo la fila al supermercato e un bianco come se non esistessi mi ha scavalcato. Quando ho replicato ha alzato la voce e mi ha detto di stare zitto, che noi neri ovunque andiamo creiamo solo disordine e scompiglio. Se fossi stato un bianco lo avrebbe fatto?
È questa la domanda che tormenta Amir e chi come lui vive nel quotidiano il dramma della discriminazione. Se fossi stato “come gli altri” sarebbe stato diverso? Ma chi ci insegna cos’è il normale e cos’è l’eccezione? Esiste davvero la normalità? O semplicemente ce la impongono perché tanta complessità e moltitudine sfugge al nostro controllo e ci spaventa? In questa realtà che si sforza di rendere tutto meccanico e uniforme, quantitativo e razionale, la ragione umana “arriva a ricercare esclusivamente la maggiore comodità per la sua comprensione limitata, trovando del resto in ciò una soddisfazione immediata dal fatto stesso che tale tendenza verso il basso lo conduce nel senso della semplificazione e dell’uniformizzazione di ogni cosa; essa obbedisce quindi tanto più facilmente e più in fretta a questa tendenza, quanto più gli effetti di essa sono conformi ai suoi desideri.” (Guano).
Viviamo in un mondo pieno di pregiudizi e di cliché e mi rendo conto forse per la prima volta adesso di quanto si rischi sempre di cadere nel banale quando si parla di discriminazione. Mentre cerco un lampo di luce che agiti le coscienze, che possa servire a smuovere valide domande e a trovare convincenti risposte, mi accorgo che in mezzo a noi, tra di noi, ci sono innumerevoli George Floyd e forse non sono tutti neri: George Floyd è nel diverso, nelle minoranze, nelle ingiustizie che si perpetuano a danno della dignità e della vita umana.
Amir è qui, seduto sulla scalinata, davanti agli imponenti leoni del Duomo che ci sovrastano con rispettoso silenzio e ha deciso di parlare, consapevole che la sua sarà una voce persa nel vuoto, nell’oblio dei potenti, di quelli che comandano, ma la sua è anche una voce stanca, umile, forse in grado, per tanta gracilità, di infastidire, far bacillare.
- Ho solo voglia di normalità- conclude sottovoce e non ho il coraggio di fargli l’ultima domanda perché ora sento il peso schiacciante del pregiudizio anche su di me, mentre la gente passa, mi squadra e mi fissa, il peso di tutti quegli sguardi curiosi, irriverenti e quasi sfacciati che si chiedono cosa ci faccia seduta qui, con questo vestito estivo color panna un po’ lezioso, impacciata ma soprattutto bianca, davanti ad un Amir rattristito e dimesso, piegato davanti alla vita, ma soprattutto nero.
Tuttavia, si riaccende, quando con coraggio gli faccio l’ultima domanda:
- Come lo vedi il futuro? -
- Nel futuro non ci sarà più razzismo, perché le nuove generazioni avranno imparato a convivere e per loro non esisterà il diverso, osserva davanti a te… - sposto lo sguardo sulla strada e lui mi fa cenno con un dito di guardare un gruppo di ragazzi afroamericani che scherzano e ridono con dei loro compagni di scuola bianchi - Se ora vai da loro a dire che sono africani quelli ti menano perché si sentono più italiani di te, hanno studiato, hanno vissuto in Italia, i loro amici sono italiani, la loro lingua è italiana, il loro modo di pensare è italiano… e anche i genitori di quei ragazzi bianchi, ormai lo sanno e lo accettano che se il razzismo non esisterà sarà solo grazie a loro, alle generazioni che verranno.
Il sole caldo e afoso dei pomeriggi di Piazza Duomo ha lasciato il posto a un piacevole venticello. Io e Amir sotto i Leoni imponenti di questa immensa e splendida cattedrale ci godiamo i colori del tramonto mentre quei ragazzi davanti a noi continuano a schiamazzare, rincorrersi, sorridere, qualcuno toglie il cappello all’altro, un altro lo insegue, un altro lo abbraccia… ma qual è il nero? Qual è il bianco?
Amir è silenzioso, li fissa, li guarda, poi ogni tanto allunga le gambe lasciandole ciondolare giù per gli scalini e torna a scrutare i colori del cielo, con lo sguardo perso nel vuoto.
Mi volto e lo fisso, vedo i suoi occhi in un lampo diventare rossi, chissà cosa vedono adesso mentre a fatica trattengono le lacrime che scivolano giù come rugiada sull’asfalto nero e si disperdono nella sua folta barba.
Amir da quegli occhi esausti e stanchi ogni giorno, seduto su una panchina, osserva con lo sguardo di un ragazzo della sua età lo svolgersi di un mondo per cui è invisibile, inesistente. E questo lui lo sa, lo sa bene, ma non lo capisce o comunque non riesce ad accettarlo fino in fondo, come si possa ignorare la sofferenza e il dolore dell’altro quando è così vicino, così tangibile.
Ma Amir, giovane Amir, siamo nell’epoca del capitalismo, della globalizzazione e delle supertecnologie, con un dito si accorciano le distanze, si spostano dighe e si costruiscono cattedrali, il dolore non esiste, è solo un’illusione, disdicevole debolezza da evitare, ma solo fin quando è degli altri... Mi sollevo dai gradini, afferro di scatto la mia borsa, il mio vestito color panna ondeggia un po’ per via della leggera brezza serale che è arrivata, la piazza è ormai semideserta e quasi vuota, Amir ora ha di nuovo il capo chino e fissa la punta sporca delle sue scarpe da tennis.
- Amir ti andrebbe un gelato? Panna e cioccolato, il nostro preferito. –
Roberta Calzolaro