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Paola Aceti: storia di tossicodipendenza e rinascita, “La Luce Nel Buio È Dire A Sé Stessi La Verità” In evidenza

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Di Giulia Bertotto Roma, 4 dicembre 2022 (Quotidianoweb.it) - Paola Aceti è nata a Roma il 20 ottobre 1969. “Oltre a essere una cuoca, da sempre nutre la passione per la scrittura di storie realistiche, piene di dolore, significato e speranza. Il suo primo romanzo, Esiste la luce nel buio. La strada per sconfiggere la tossicodipendenza è espressione di un’immensa voglia di riscatto da una condizione di vita passata che l’ha portata a subire per molti anni traumi psicologici, e, soprattutto, i terribili effetti della tossicodipendenza”.

Siamo andati a conoscerla per parlare del suo percorso di trasformazione.

Perché ci si inizia a drogare? Per punirsi o per fuggire il dolore o aumentare il piacere? Non credo lo si faccia davvero per sentirsi ribelli.

Per me tutto è cominciato dall'adolescenza, la mia famiglia era molto rigida e io probabilmente molto sensibile. Oggi ho capito che quello che mi è mancato di più era la complicità con i miei genitori. Non mi sentivo capita, non mi arrivava alcun sostegno, mi sentivo diversa e sola. Mi ero chiusa. Quando ho conosciuto l'uomo che poi ho sposato avevo 18 anni, lui era stato gentile con me, che abituata alla durezza e alla rigidità della mia famiglia, mi sembrava quasi un miracolo. La mia tossicodipendenza è iniziata tardi rispetto a ciò che avviene solitamente, intorno ai trent'anni, quando ho divorziato da lui. Solo molto più tardi ho capito che lo avevo sposato anche per fuggire dal mio nucleo familiare. Tra noi c'era l'amore ma c'era anche un attaccamento in qualche modo morboso. Dopo la separazione sono crollata nella depressione, e ho iniziato a frequentare persone che qualcuno chiamerebbe “sbagliate” ma che io chiamo sofferenti, con traumi importanti come i miei. Ho iniziato con l'alcol, poi ho fatto uso anche di cocaina ed eroina.

Poi non si distingue più tra ciò che si subisce e ciò che ci si infligge.

Già. Si inizia in un momento di fragilità, non si è già più lucidi ancor prima di iniziare a farsi o a bere! Si è già un po' fatti dal dolore quando ci si avvicina alle sostanze. Esse poi peggiorano la situazione e si entra in un circolo vizioso che sembra impossibile da rompere. E' molto importante per me far capire che nessuno inizia pensando “da oggi mi drogherò”; pensi di fare qualcosa che ti da un piacere momentaneo, invece ti anestetizza, è un processo inconscio. Sballo, sedazione e poi tortura. Nessuno ha mai pensato “inizio a bere per dimenticare”, anche se accade proprio questo. E così i problemi che avevi già sembrano calmati e invece vengono amplificati e si aggiunge l'astinenza.

Però anche l'infanzia ha un suo peso, non si diventa adolescenti senza essere stati bambini. Tra l'altro per molto tempo c'è stato il mito dell'infanzia felice, oggi sappiamo che a volte non è così. Ci sono depressioni infantili anche molto importanti e purtroppo oggi in aumento.

Eccome, io non ho nessun bel ricordo della mia infanzia e non lo dico con rabbia, ma perché è così, non ho memoria di slanci di affetto da parte dei miei genitori e anche io probabilmente non mi esprimevo verso di loro. Il messaggio che vorrei mandare a tutti i genitori è: siate innanzitutto amici dei vostri figli, siate complici, date consigli.

Tuttavia molti psicologi ci spiegano che senza un sano principio di autorità un ragazzino può comunque sentirsi poco amato, in quanto non trova confine alla sua angoscia che si esprime sfidando le figure normative.

Occorre trovare un equilibrio; il genitore perfetto non esiste ma si può essere genitori umili e chiedersi se si sta facendo tutto il possibile per entrare in sintonia con il proprio figlio. Le regole devono esserci ma devono essere comprese dal ragazzo o ragazza e non imposte senza spiegazioni. Credo più nei consigli che nelle coercizioni. Se un figlio si fida delle figure genitoriali non ha motivo di disobbedire.

Ciò da cui si dipende davvero è l'affettività e mai una sostanza, generalizzando possiamo dire che la dipendenza è un atteggiamento interiore verso gli altri e verso la vita. Ma non hai ancora detto nulla su tua madre. Com'era il rapporto con lei?

Mia madre non era dura come mio padre, era una grande lavoratrice, amava mio padre e difendeva la sua famiglia. Non credo si sia mai accorta di quanto stessi male. Anche con lei mancava la complicità. Il mio libro parla di perdono e io ho perdonato entrambi. Ho perdonato loro e mi sono fatta carico di me. Voglio aiutare chi si trova nella condizione in cui sono passata anche io, se ne può uscire anche quando sembra impossibile venirne fuori.

Drogarsi o abusare di alcol è un sintomo, non la radice del malessere. Dunque disintossicarsi non significa soltanto smettere di dipendere da quella sostanza ma soprattutto e innanzitutto integrarsi, avere una vita sociale, affettiva, lavorativa, divertirsi davvero e assumersi la responsabilità di sé stessi.

Le comunità servono infatti a questo reinserimento, ma spesso falliscono, e questo accade perché non sono tutte uguali e neanche i tossicodipendenti lo sono, dunque è fondamentale che ciascuno trovi il programma più adatto a lui. Ci devono essere delle figure che indirizzino la persona tossicodipendente al percorso che fa per lei. La persona dall'altra parte deve essere vera con sé stessa. Deve guardarsi dentro e capire qual è la motivazione che la ha portata, non tanto ad iniziare con la droga, ma a continuare. Perché non è solo ed esclusivamente per via dell'astinenza. Cosa stai coprendo o camuffando? Bisogna chiederlo subito alla persona dipendente. E d'altra parte lei deve avere il coraggio di rispondersi con franchezza se vuole salvarsi.

Inoltre ci sono molte comunità il cui unico scopo è il lucro, non lavorano alla radice dei problemi che hanno portato all'abuso di sostanze e questo è il versante sociale di questa piaga, che si aggiunge all'impresa emotiva e psicologica che deve fare il tossico.

Con te la comunità non ha funzionato, diciamo così.

Io sono stata in comunità, ma non ero arrivata alla radice del mio male, ed è in carcere che ho fatto la mia svolta, ho preso in mano la responsabilità di me. In carcere mi trovavo anche con persone che avevano compiuto gravi reati e crimini anche spaventosi. Io ci ero finita perché mi sono fatta coinvolgere in una rapina senza nemmeno capirlo, aspettando in macchina mentre avveniva. Io non ho mai rubato, nemmeno per farmi. Il carcere mi ha salvata, ma non voglio dare il messaggio che il carcere salva dalla droga: per me è stato così, nel mio specifico caso. Non mi sono opposta alla detenzione e mi sono rafforzata. Ho capito cosa nella mia infanzia aveva inciso così profondamente su di me. Non potevo più schivare gli ostacoli, dovevo necessariamente guardarli direttamente. La paura, la vergogna, la rabbia, il senso di fallimento e tante emozioni illusorie che vanno superate.

Quando non hai più avuto modo di fuggire da te stessa hai iniziato a entrare dentro te stessa come mai prima di quel momento. Anche l'autore Fabio Cantelli Anibaldi, spiega qualcosa di simile quando racconta di aver incontrato sé stesso nel momento in cui -nella comunità di San Patrignano- Muccioli lo chiuse in uno stanzino e gli negò perfino un libro perché non doveva scappare da sé stesso. Al di là del merito di questi rimedi, emerge un'affinità.

Ripeto, i metodi efficaci sono diversi per ciascuno, e questo accade per le patologie del corpo come dell'anima. Nel mio caso, durante il lockdown ho iniziato a scrivere quello che sarebbe diventato il mio libro. Non c'era via di fuga fuori da me né dentro di me. Ma finalmente volevo aprirmi alla verità e quella era la cura. Oggi io mi amo e il mio desiderio più grande oggi è semplificare il percorso di rinascita di chi si droga e aiutare chi si occupa di prevenzione di questo drammatico fenomeno. Aiutiamo chi abusa di sostanze a scegliere il giusto programma di disintossicazione e sproniamo la persona a domandarsi la verità su sé stesso.

Tutti abbiamo il coraggio, sepolto magari, ma dobbiamo avere il coraggio di tirar fuori il coraggio.

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