Lettere a Tito n. 320 - La difficile emigrazione femminile matrimoniale e contadina in Italia da sud a nord (1945 – 1985)
Caro Tito, con questa “Lettera n. 320” vorrei accennare ad un periodo poco o niente affatto conosciuto della storia del sud italiano e, in particolare, della nostra zona jonica del comprensorio di Soverato e dintorni ma anche (mi sono accorto) della grande storia dei lavoratori italiani della seconda metà del secolo 20° appena trascorso o nei rapporti Nord-Sud del nostro Paese. Si tratta delle donne che emigravano stagionalmente (da marzo a novembre) per lavorare negli orti (“ortaie”) della pianura padana specialmente tra il 1945 e il 1985. Ma vorrei accennare pure all’importante fenomeno delle “emigrazioni matrimoniali” delle donne meridionali richieste in moglie da agricoltori, allevatori e operai, più o meno giovani, del nord Italia tramite un vivace sistema di procacciatori, mediatori, “sensali” o “bacialé”. Questo mi sembra che sia stato un tema più conosciuto, specialmente da parroci, sindaci, giornalisti, studiosi ed editori rispetto a quello delle contadine che, ben più numerose, dovrebbero ottenere una maggiore considerazione e una migliore attenzione da parte di tutti noi almeno come memoria sociale. Il testo che segue intende essere (salvo imprecisioni ed involontari errori) un documento di testimonianza e come base di partenza per più adeguati e professionali studi anche sindacali, a cominciare da più tesi di laurea. Chiedo quindi scusa se qualche particolare possa poi risultare improprio o inesatto (vista pure la lontananza temporale degli eventi), ma ritengo che sia salva la sostanza umana, sociale e storica della narrazione. Ovviamente, resto a disposizione per rettifiche o integrazioni, precisazioni o maggiori contributi conoscitivi e migliori approfondimenti.
1 – PREMESSE
Solitamente, quando andiamo al supermercato o alla bottega di quartiere a comprare un qualsiasi alimento, non pensiamo quasi mai a quante sofferenze e a quanto sudore ci sono voluti per ottenerlo e per farlo giungere a noi. In particolare, quando portiamo quotidianamente sulla nostra tavola il pane, la pasta, le carni, le verdure, i condimenti, le bevande, ecc. difficilmente ci soffermiamo su quale e quanto sfruttamento si sia consumato nell’ottenerli, anche se alcune istituzioni o associazioni umanitarie hanno sollecitato produttori e commercianti ad evidenziare sulla confezione frasi-concetto del tipo “Per ottenere questo prodotto non sono stati impiegati bambini” oppure “Non è stato utilizzato lavoro minorile” … come nel commercio equo e solidale. Ma le cronache, anche attuali, sono stracariche di sofferenze e sfruttamenti, assolutamente indegni di una umanità, di una civiltà, di una qualsiasi politica e religione che non sia quella del denaro, del profitto fine a sé stesso e dello strapotere.
Ed anche se al telegiornale sentiamo spesso parlare di sfruttamento di lavoratori (specialmente immigrati “extra-comunitari” ma anche comunitari europei) utilizzati (in condizioni spesso disumane) per la lavorazione e la commercializzazione dei prodotti della terra (frutta, ortaggi ed altro) non pensiamo quasi mai alla filiera dei mancati diritti o di inosservanza pure delle semplici ed ovvie leggi sanitarie che gravano su ciò che utilizziamo, penalizzando o mettendo a rischio anche tutti noi. Così come non ci importa più di tanto il sentire parlare di etica del lavoro e del fatto che potremmo essere, persino noi utenti, complici di scelte che avvantaggerebbero un iniquo sistema produttivo e mercantile. Se non lo abbiamo ancora fatto, forse è il caso di darci un po’ di pensiero, pure per cercare di migliorare la nostra società e il nostro pianeta. Noi stessi!
2 – LE EMIGRAZIONI DEFINITIVE
Caro Tito, fin da quando ero bambino (nel decennio 1950-60) sono stato testimone delle strazianti partenze di massa di emigranti per le Americhe, per l’Australia e poi per il nord Italia e per il centro Europa (in particolare Svizzera, Germania e Francia). Abitando nella marina di Badolato quando ancora non era Badolato Marina, mi era facile andare (quasi quotidianamente) alla stazione ferroviaria per salutare parenti, amici o semplici conoscenti prima che salissero sul treno della sera che li avrebbe portati verso le loro nuove lontanissime destinazioni. Abbracci e baci, lacrime e fazzoletti bianchi erano la scenografia dolorosa di tutte indistintamente queste partenze in tempi in cui davvero “partire era un po’ come morire” perché si era convinti che il paese natìo sarebbe stato lasciato per sempre. E, in effetti, la maggior parte di tali emigrati non è più rientrata, nemmeno per una semplice visita turistica.
Ma dove andava tutta questa gente?… Andava, intanto, a lavorare e a contribuire così al progresso e al benessere di altre Nazioni, dal momento che qui da noi non c’era lavoro e, se c’era, era talmente sfruttato da diventare addirittura insostenibile situazione di indegno abbrutimento umano e sociale (come dimostrano, ad esempio, le aspre e a volte sanguinose lotte contadine del dopoguerra). Certo, non era affatto facile iniziare una nuova vita in Paesi assai lontani e spesso di troppo differente mentalità ed organizzazione, alcuni dei quali si sono dimostrati decisamente ostili ai nuovi arrivati. Però, per sé stessi e per i propri figli, tutti erano fortemente decisi ad affrontare con tenacia e determinazione qualsiasi sacrificio, poi ripagato con la agognata dignità economica e sociale (come ho avuto modo di costatare personalmente recandomi in alcuni di questi luoghi di emigrazione intercontinentale come Canada ed Australia o anche Svizzera). Il tempo di una generazione di grandi sacrifici e le seguenti si sarebbero sentite pienamente integrate, a volte con successi di prestigio persino internazionale (cosa impensabile se fossero rimasti in Italia, figuriamoci in Calabria e in genere nel meridione).
A volte, unico tarlo per gli emigrati era la ovvia e naturale nostalgia delle persone e dei luoghi dell’infanzia, lasciati per l’avventura di un futuro migliore. Una nostalgia che si cercava di esorcizzare in molteplici modi, uno dei quali era la corrispondenza epistolare, poi i filmini e le telefonate, poi ancora e più recentemente le video-chiamate e uno scambio di visite (anche transoceaniche) tra parenti ed amici, spesso portando i prodotti fatti in casa, specialmente gastronomici il cui gusto si era perso ormai irreversibilmente (e questo era uno dei costi maggiori, anche psicologicamente). Pure la mia famiglia è stata colpita pesantemente da emigrazioni definitive, come quelle di zii e, in particolare, del mio mai conosciuto fratello Giuseppe (1930), il quale è partito a venti anni per l’Argentina esattamente tre mesi dopo la mia nascita (qui nella copertina di “Prima del Silenzio” con la foto-ricordo prima del doloroso distacco). Purtroppo questo mio fratello maggiore è morto nel 1996, proprio pochi mesi prima che io lo andassi ad incontrare a Villa Bosch di Buenos Ayres. Invece, sono riuscito ad andare a trovare mia sorella Rosa in Sud Australia (1995), dove vive serenamente con le generazioni della sua famiglia nella città di Adelaide. Un altro fratello, Antonio, ho avuto per tanti anni lavoratore in nord Italia, in Svizzera e in Germania (in particolare nella ricostruzione di Berlino). Mentre mia sorella Vittoria e mio fratello Vincenzo hanno vissuto lunghi periodi di emigrazione in Lombardia, dove tutt’ora abita, con figli e nipoti, mia sorella Concetta.
Casa mia riceveva spesso lettere dai vari luoghi di emigrazione. Corrispondenza che leggevo e conservavo come documento dell’anima ma anche come testimonianza storica dei nostri tempi difficili. E conservavo pure le minute o le copie delle mie risposte. Tale intenso e copioso epistolario ha influito poi nella mia visione del narrare … a tal punto che (come evidenziato altre volte) ho preferito così trasformare la mia scrittura soltanto in “Lettere” spontanee mentre prima avevo un indistinto modo di raccontare. Così (fin dal 1989 nel mensile “L’Eco dell’Alto Molise”) sono nate le prime 5 “Lettere al Futuro” poi raccolte in un opuscolo di 16 pagine e andate in stampa nell’aprile 1990 (quasi 31 anni fa). E, adesso, eccomi qui, con le “Lettere a Tito” che, con questa, hanno raggiunto le 320 unità in otto anni e 4 mesi con una media di circa 40 “puntate” per anno (sulle 52 previste, una a settimana). La lettera è un atto di umiltà e di amicizia, spesso di confidente intimità ed umanità, poiché non ha alcuna pretesa o ambizione né letteraria né giornalistica. In particolare, tale scrittura epistolare è una delle forme più naturali, libere e sincere, autentiche e semplici di espressione. Non si preoccupa di formalismi, nemmeno grammaticali o linguistici e i testi non hanno le limature di quelli colti o eruditi, degli elaborati. L’importante è comunicare, pure con speditezza, spesso in tempo reale, far circolare fatti ed idee, affetti e sentimenti. Con la più assoluta onestà. Affidandosi maggiormente all’intelligenza del cuore e alla lungimiranza piuttosto che alla speculazione mentale, complessa o ideologica.
3 – LE EMIGRAZIONI STAGIONALI
Oltre alle emigrazioni definitive, dal dopoguerra in poi (1945) abbiamo avuto (e continua ancora) l’esodo stagionale che (più o meno di massa) ha contribuito a svuotare i nostri borghi, le nostre campagne e le nostre regioni non soltanto meridionali ma tutte le periferie non solo italiane, specialmente collinari e montane. Chi aveva più possibilità emigrava con maggiore vantaggio economico in Svizzera o in Germania, qualcuno pure in Francia o in altro Paese bisognoso di lavoratori. La povertà (quando non la miseria) non era allora capace di considerare che lasciare la propria terra significava una catastrofe sotto tutti i punti di vista. Tuttavia, bisognava scegliere tra la vita e la morte, anche sociale. Mentre i più ardimentosi sceglievano di emigrare all’estero, invece chi aveva poche possibilità di espatriare era obbligato a scegliere l’emigrazione interna, in centro e nord Italia, dove l’industrializzazione era in forte espansione con tutto il suo ampio indotto, tra cui – appunto – gli orti e le risaie.
Così, per contribuire a tale “miracolo o boom economico” italiano si sono mosse milioni di persone… un intero Mezzogiorno … con tutte le sue categorie produttive (dagli insegnanti ai fabbri, dai contadini ai falegnami, dalle domestiche agli imprenditori, dagli operai ai medici, dai sarti e agli ingegneri, ecc. ecc.). Tragicamente traditi gli ideali risorgimentali, la cosiddetta “unità d’Italia” del 1861 si è poi rivelata una malcelata conquista coloniale interna ed il Sud è stato concepito ed è immediatamente divenuto “serbatoio” soprattutto per il nord ed anche per l’estero amico (spesso in cambio di carbone o di acciaio, sempre e comunque a favore del nord industriale, però). Per mancanza di vera unità interna, quello italiano (volenti o nolenti) è sempre stato, in pratica, un “popolo in vendita” … alla mercé dei più forti ed uniti popoli della terra o dell’impero di turno.
4 – SUD SERBATOIO DI MOGLI
Nonostante sia più conosciuto di quello delle braccianti meridionali negli orti padani, questo dell’emigrazione matrimoniale è un tema ancora insufficientemente indagato (anche sociologicamente e storicamente) e pochi ancora sanno che il meridione italiano è stato per alcuni decenni (specialmente 1945-1985) serbatoio di donne da dare in moglie ad agricoltori, allevatori ed operai del nord. Non è stato come … “il ratto delle Sabine” (753 avanti Cristo) da parte dei più antichi Romani … ma ci somiglia molto. Infatti, già dall’immediato dopoguerra la donna settentrionale aveva cominciato a vivere una più accelerata emancipazione con i nuovi ruoli femminili preparati dall’industria, dal commercio o dai miraggi di massa, dai servizi e dal terziario (insegnanti, commesse, segretarie, impiegate, infermiere, venditrici, ecc. ecc.). Si attuava così un ingente trasferimento di giovani donne dalle campagne padane e dalle montagne prealpine e appenniniche verso le città, con una nuova visione della vita, dell’economia e persino del matrimonio che non prevedeva più i lavoratori umili e “sporchi” come, ad esempio, gli agricoltori, gli operai non specializzati e gli allevatori.
Così, tramite una fitta rete di “combina-matrimoni”, intermediari, “bacialé” o “sensali”, decine di migliaia di uomini settentrionali (giovani e meno giovani) si rivolsero al meridione per prendere in moglie donne che (in stato di bisogno o di incoscienza, con il sogno o l’illusione di “progredire” la propria condizione) accettavano il trasferimento al nord sconosciuto (forse pure un po’ troppo mitizzato), spesso in zone isolate o disagiate, per lavorare in campagna o nelle stalle e per accudire mariti e loro familiari, il più delle volte anziani o disabili. Come è successo pure a parecchie donne di Badolato di mia conoscenza, alcune delle quali, pur pentite poi del forte salto antropologico e geografico, si trovarono costrette a continuare il loro dovere-contratto coniugale e la loro “missione” sociale interregionale. Donne che hanno contribuito all’unità d’Italia e alla coesione nazionale più di tanti politici lautamente pagati a tale scopo!…
Qui di sèguito, segnalo tre testimonianze narrative sul tema. La prima è il romanzo << BACIALE’ >> di 249 pagine autopubblicato il 02 novembre 2011 dal primario-oncologo astigiano Franco Testore il quale, con lo pseudonimo di Fermo Tralevigne, ha raccontato quelle che nel libro << sono tutte storie sentite personalmente negli anni 1950 e ‘60 durante il periodo di forte immigrazione di ragazze meridionali arrivate, grazie alla mediazione dei “bacialé”, ad un matrimonio e ad un marito>>. Tale “bacialé” era una figura professionale-sociale che nasceva dalla necessità di molti giovani celibi piemontesi (in particolare delle Langhe) di trovare una moglie e di molte donne (soprattutto calabresi) di ricercare un marito e forse pure una vita meno grama nel favoleggiato e mitico nord Italia (https://lanuovaprovincia.it/cultura-e-spettacoli/spose-calabresi-per-mariti-langaroliil-baciale-di-testore-alla-casa-del-popolo/).
E’ un po’ come viene raccontato nel libro << TI HO VISTO CHE RIDEVI >> (scritto dal collettivo Lou Palanca e pubblicato nel 2015 da Rubbettino … https://www.store.rubbettinoeditore.it/le-langhe-salvate-dalle-calabresi-l-europa-dalle-attuali-migrazioni). Nell’aprile 1916 ne ho scritto e diffuso un mio commento su varia stampa italiana (https://www.ciavula.it/2016/04/le-langhe-salvate-dalle-calabresi-leuropa-dalle-attuali-migrazioni/), legando quelle migrazioni interne ai migranti che oggi provengono da ogni parte del mondo, attratti dai Paesi più benestanti come Europa, America del nord, Australia, Stati arabi o asiatici ricchi. E’ di Riace (R.C.) la protagonista della storia contenuta in “Ti ho visto che ridevi” documento che, pure per riguardare la nostra zona come prototipo di tutto il sud Italia, andrebbe non soltanto letto da noi tutti ma anche studiato nelle scuole, tanto è importante conoscere quel periodo assai significativo per la società non soltanto nazionale. Ribadisco, un periodo (questo della “emigrazione matrimoniale” interna) assai poco indagato dalla storia, dalla sociologia, dall’antropologia e dall’economia ma che merita maggiore attenzione anche culturale (cinema – TV – teatro, mostre fotografiche, convegni, ecc.) pure per una migliore simpatia e fratellanza nord-sud e sud-nord.
Lo afferma pure Laura Marchesano nel saggio << ALLA RICERCA DI UNA MOGLIE – Celibato rurale e migrazioni matrimoniali >> (2010): “ Nell’àmbito degli studi sui fenomeni migratori che hanno interessato l’Italia del secondo dopoguerra, la ricerca ha privilegiato l’analisi dei massicci trasferimenti di lavoratori verso l’estero, prestando minore attenzione alle migrazioni interne dello stesso periodo. Inoltre, pur riconoscendo l’importanza che tali movimenti di popolazione hanno assunto nella ristrutturazione economica e sociale del nostro Paese, storici e sociologi hanno analizzato soprattutto i flussi provenienti dal Mezzogiorno agricolo, diretti verso i grandi centri urbani industriali del Nord. Hanno invece lasciato in ombra altre forme di mobilità, penalizzando, in particolare, i movimenti migratori femminili, solitamente interpretati come spostamenti “al seguito”, successivi cioè ad una decisione di trasferimento intrapresa dagli uomini, siano essi padri o mariti “. (https://storicamente.org/sites/default/images/articles/media/1292/marchesano_immigrazione_matrimoniale.pdf).
Laura Marchesano è dottore di ricerca in Storia dell’Europa all’Università Alma Mater di Bologna. Ha pubblicato il libro “Sposarsi altrove” (edizioni Clueb, 2012) e nell’ottobre 2019 ha partecipato a Vibo Valentia al “Festival Leggere & Scrivere” (http://www.festivaleggerescrivere.it/senza-categoria/laura-marchesano/). Sul filone di tale tematica, riporto qui di sèguito la storia matrimoniale della signora Venere Ingratta, originaria di Villa Canale di Agnone del Molise, il paese di nascita di mia moglie Bambina Mastronardi. Ho intervistato per telefono la signora Venere (comunemente chiamata Venerina) per circa 49 minuti dalle ore 20.20 di martedì 09 febbraio 2021 e per 52 minuti dalle ore 18.08 di giovedì 11 febbraio 2021, pure per dialogare con il figlio Orazio.
5 – VENERE INGRATTA DAL MOLISE ALL’EMILIA-ROMAGNA – 1969
Nata il 23 gennaio 1951, Venere Ingratta (detta Venerina) sabato 25 ottobre 1969 ha sposato Francesco Zanni (nato a Sasso Marconi, provincia di Bologna, il 02 aprile 1946) nella chiesa parrocchiale della natìa Villa Canale (la più popolosa frazione di Agnone, allora in provincia di Campobasso, oggi di Isernia in Molise). Sono andati all’altare (uniti in matrimonio da don Pietro Mastrangelo, un prete-mito) dopo un fidanzamento di appena 4 mesi e di pochissime visite reciproche.
Infatti, verso la fine del mese di giugno 1969 il futuro marito le era stato presentato dal sensale matrimoniale emiliano Angelo Ricci il quale era in contatto con Michele Lemme, proprietario e gestore della trattoria “Il grottino” di Agnone del Molise. Ricci era solito fare la spola, nei fine-settimana, tra l’Emilia-Romagna e questa parte dell’Alto Molise (ma anche del confinante Abruzzo o Alto Vastese) per portare uomini celibi, giovani e meno giovani (generalmente agricoltori, allevatori ed operai) da far sposare con umili ragazze del popolo, possibilmente vergini e senza alcuna pretesa, abituate ai lavori pesanti della campagna e soprattutto ubbidienti, remissive e parsimoniose.
A quel tempo si trattava, generalmente, di portare queste ragazze da una famiglia patriarcale del sud ad un’altra famiglia patriarcale del nord. Amore, innamoramento, affetto erano opzioni e variabili di poco conto. Almeno al principio. L’importante era ricavarne figli e lavoro, in un ambiente a volte troppo diverso per mentalità ed abitudini, spesso ostile per pregiudizi e addirittura per razzismo, persino all’interno delle stesse famiglie di destinazione. “Generalmente quelli del nord sono antimeridionali, ma alla fine finiscono per sposare proprio le meridionali” mi dice il figlio Orazio.
“Non lo rifarei, se potessi tornare indietro, perché ero troppo giovane per capire. Avevo appena 18 anni. Nessuno ci spiegava come effettivamente stavano le cose!” mi dice assai decisa la signora Venerina. Troppe le difficoltà incontrate nella casa del marito, dove il comando su tutti e su tutto era troppo ferreo ed esclusiva prerogativa del “suocero-patriarca” ed anche della suocera che mal digeriva il fatto che il figlio le avesse portato in casa una terrona … anzi, una “marocchina” come la chiamavano pure al di fuori dell’ambiente familiare, con grande sofferenza sua e del marito. Il lavoro, poi, era molto più pesante che non a Villa Canale dove c’era da badare soltanto a una decina di pecore e ai lavori di ristretti campi di mezza montagna. Invece, Francesco l’aveva portata in una vera e propria complessa fattoria padana con una stalla di 20 mucche, molti e vari animali da cortile e ben 19 ettari di terreno pianeggiante a distesa dove ancora coltivano barbabietole da zucchero, patate, grano, erba medica, ortaggi e tanto altro. Nonostante Venerina si impegnasse a lavorare fino allo spasimo non veniva apprezzata, nemmeno quando ha donato alla famiglia-azienda tre bei figli maschi: Marco (nato il 22 luglio 1970 esattamente dopo nove mesi di matrimonio), Orazio (06 dicembre 1971) e Massimo (13 luglio 1973).
“Ero molto remissiva e fin troppo docile e paziente… ma poi mi sono ribellata. Tardi, ma ho trovato il coraggio di ribellarmi a questa situazione!… Figurati che sono riuscita a prendere la patente soltanto nel 1988, dopo quasi venti anni di matrimonio.” Afferma orgogliosa la signora Venerina, la quale oltre al nome (che sa appartenere alla dea dell’Amore) avrà ereditato dalla nonna materna altre e forti doti di carattere e di dignità personale. Ma poi a confortare la sua vita in quella fattoria isolata di campagna (distante 6 km dalla cittadina di Medicina nel cui territorio comunale è posizionata, da Bologna 30, da Imola 24, da Ferrara 56) Venerina ha avuto il conforto della vicinanza di alcuni suoi familiari, sistematisi in zona nel corso degli anni: i genitori (Amerigo e Angiolina Vecchiarelli, entrambi ormai deceduti), la sorella Silvana che abita a Budrio (15 km) e il fratello Giovanni che abita a Molinella (20 km) nella stessa provincia di Bologna.
Il sensale Angelo Ricci è riuscito a portare in Emilia parecchie ragazze molisane e abruzzesi dopo aver sposato giovani agricoltori, allevatori ed operai. Come Sabatini Iolanda di Poggio Sannita (tre km da Villa Canale). << Ci siano fatte coraggio insieme – mi dice la signora Venerina – Mi frequento spesso ancora pure con Rina Pannunzio, una compaesana con cui ho fatto insieme la scuola elementare. Ogni tanto mi vedo anche con una certa Lucietta di Agnone. Ma, adesso, mi dedico tutta alla mia nipotina Valentina, 11 anni, figlia di Marco, anche perché per il troppo lavoro non mi sono potuta godere i miei tre figli. Né ho potuto mai viaggiare se non per andare poche volte ai parenti di mia madre a Torvaianica, vicino Roma, e una volta, nel 1997, per appena dieci giorni, a vedere i parenti da parte di mio padre a Leamington, Ontario, Canada dove c’è una grande comunità di villacanalesi >>. Le foto del matrimonio mi sono state fornite dalla signora Venerina e sono opera del bravo e mite maestro Umberto Leone di Agnone del Molise, dove era giunto come sfollato della seconda guerra mondiale dal paese di San Marco in Lamis (Foggia).
6 – ORAZIO ZANNI
Caro Tito, la signora Venerina ha il figlio Orazio (50 anni nel 2021) che non ha voluto sposarsi o avere una compagna e, quindi, vive in famiglia con i genitori. Voglio rendere omaggio ad Orazio perché lo scorso autunno mi ha telefonato per chiedermi se avevo pubblicato altri libri sul borgo natìo della madre, oltre a quello del 1996 “Villacanale il paese delle regine” le cui duemila copie ho regalato ad ogni famiglia villacanalese presente o emigrata in Italia e all’estero e duecento persino al mio paese di origine, Badolato (CZ), distribuite personalmente e gentilmente dal professore Vincenzo Squillacioti (che ringrazio molto ancora adesso e anche qui), allora pure presidente dell’associazione culturale “La Radice” oltre che direttore dell’omonimo trimestrale cartaceo.
Orazio avrebbe voluto farne dono alla madre che tuttora pensa con una qualche nostalgia alle sue origini molisane e Le avrebbe fatto piacere avere un libro che le ravvisasse la memoria e gli affetti dopo ben 51 anni di lontananza. Un pensiero assai gentile, espressomi da Orazio che ho notato avere un animo assai sensibile ed un grande amore per la mamma e la propria famiglia (cosa non ovvia o scontata di questi tempi). Così ha acquistato i sette volumi del “Libro-Monumento per miei Genitori” edito nel maggio 2007 (circa 2800 pagine e 2000 foto). Gli ho preparato l’elenco delle pagine con i nomi, le foto e i luoghi di Villa Canale, Agnone e Molise che sono riportati in tale collana, per una più veloce consultazione. La signora Venerina è stata assai lieta di questo bel regalo del figlio. Nel pacco della spedizione ho aggiunto in omaggio alcuni opuscoli su Agnone e dintorni, pubblicati da altri Autori locali.
Orazio Zanni lavora dal primo febbraio 1989 (32 anni) in una Dolciaria della sua zona. Essendo assai altruista e particolarmente generoso verso il prossimo, ha fatto il volontario della Croce Rossa (CRI) per undici anni (2005-2016), il “Clown di corsia” nell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, nel reparto di cardiochirurgia pediatrica, per tre anni (2007-2010), l’istruttore di nuoto per 20 anni (1996-2016), il bagnino con brevetto per 20 anni (1998-2018).
7 – MICHELE LEMME IL “SENSALE” DI AGNONE DEL MOLISE
Caro Tito, sabato 13 febbraio 2021 dalle ore 10.55 per 33 minuti ho avuto una simpatica conversazione con l’avvocato Paola Moschetto per appurare qualcosa di più preciso del suo nonno materno Michele Lemme, assai noto in zona per essere stato il “sensale” corrispondente pure del già citato Angelo Ricci per i matrimoni molisani-emiliani o abruzzesi-emiliani. Michele Lemme (Agnone del Molise 08 dicembre 1914 – 18 settembre 1982) era proprietario e gestiva la trattoria “Il grottino” sita in vicolo Savonarola, una traversa del corso principale di Agnone, tra l’ex piccola chiesa dei Cappuccini e il noto bar del Legionario. Aveva “Sbetico” come soprannome ovvero “bisbetico” per significare, nel dialetto locale, una persona “poliedrica” più che “lunatica” (a voltata di luna) … << Una specie di anfitrione – mi assicura la nipote Paola – un carattere allegro ed altruista … la bontà fatta persona … Mio nonno ha cercato di aiutare, in modo del tutto gratuito, ci tengo a precisare, le famiglie che si rivolgevano a lui, spesso insistentemente, per far maritare le proprie figliole. Era una persona rara mio nonno, carismatico, affabile e affidabile, socievole quanto generoso e gentile … ed era cosciente di fare così un’azione umanitaria >>. Sicuramente Michele Lemme era un “personaggio sui generis” pure per come mi è stato raccontato da altre persone che lo hanno conosciuto. Era un “catalizzatore” di simpatia, un aggregatore spontaneo. Forse pure atipico come “sensale” nel senso usuale del termine. Sicuramente interpretava questo ruolo con una propria spiccata personalità, aspetto che ne farebbe una originale e fascinosa figura o maschera teatrale o cinematografica, incarnando un complesso catalogo di generi contrastanti tra loro come, ad esempio, l’ironia e il dramma, il divertimento e l’angoscia nel complicato dedalo e labirinto dell’esistenza… quasi volesse farsi bandolo e guida, al maschile, al pari di Arianna con il suo filo di salvezza. Una via di uscita. Comunque, una ricerca delle migliori soluzioni.
L’avvocato Paola Moschetto parla con così tanto entusiasmo dei meriti sociali ed “umanitari” del nonno che mi viene spontaneo proporle di scrivere un qualcosa da dare alle stampe (opuscolo o libro) per illustrare anche il personaggio che (a quasi 40 anni dalla morte) è rimasto ancora molto simpaticamente nella memoria di Agnone e dintorni e, in alcuni, persino come sorriso, stupore, mito o figura pittoresca. Infatti di lui si dice che sia riuscito addirittura a far sposare (e a far passare come verginella) una “professionista dell’amore”!… << E’ vero – mi conferma l’avvocato Paola – ha avuto la sensibilità di prendere a cuore le esigenze di tutti coloro che ambivano contrarre matrimonio, farsi una famiglia, pure di chi socialmente non aveva speranza. Esprimeva la capacità di immedesimarsi nelle persone e di aiutarle nelle loro esigenze. Era un uomo che proveniva dalla campagna più caratteristica ed autentica, Località Maravecchia (tra Agnone e Villa Canale), ed ha sempre portato con sé i valori tipici della civiltà solidale contadina. Valori che ha insegnato anche a noi nipoti. Sono molto fiera di questo mio nonno, persona che reputo davvero speciale e straordinaria! >>. Ed ha perfettamente ragione. Anzi, a mio parere, Michele Lemme può assurgere persino a simbolo universale.
L’avvocato Moschetto mi conferma che questo suo nonno sia pure parente dell’autore, attore e regista teatrale amatoriale Umberto Di Ciocco, che conosco dal lontano 1983 e al quale (sabato 13 febbraio 2021 ore 10.47) ho inviato una email per proporgli di dedicare a questo personaggio (e alle sue caratteristiche tematiche) una commedia brillante, pure come documento degli anni 1945-1980 quando il “sensale” si rendeva socialmente necessario ed utile per le tante comunità rurali così isolate come quelle che vivevano sulle nostre montagne appenniniche, specialmente negli anni assai difficili del secondo dopoguerra, quando un intero popolo cercava di rinascere dopo una disastrosa sconfitta non solo militare ed una distruzione fisica e spirituale. Mercoledì 17 febbraio 2021 pomeriggio ho fatto poi, telefonicamente, la medesima proposta all’affermato (e tanto da me stimato) commediografo agnonese Antonino Patriarca, nonché al veterano e pluripremiato (anche a livello nazionale) regista teatrale Giuseppe De Martino della “Compagnia Le 4 C”, ma in futuro eventualmente pure ad altri (come lo strepitoso attore comico agnonese Paolo Porrone), dal momento che Michele Lemme è un “monumento” sociale di queste zone montuose ed interne del nostro Appennino centrale. Ovviamente ciò dovrà e potrà avvenire con il “beneplacito” degli eredi Lemme. E, a mio parere, la figura dello “Sbetico” è tanto e tale “monumento universale” che come personaggio letterario, teatrale o cinematografico potrebbe diventare famoso nel mondo proprio come altre figure o maschere italiane celeberrime del tipo Arlecchino, Pulcinella, Pantalone o altre figure della nostra Commedia dell’arte. Tra tanto altro mi appare pure come maschera felliniana, ma come significativo contraltare di quella “Dolce vita” che si consuma nelle città, spesso all’ombra del Potere. Alla lunga potrebbe addirittura diventare (a sapere gestire bene tale “fortuna”) un prototipo e un “volàno” socio-economico-culturale non soltanto per Agnone.
E, oltre che figura culturale e teatrale, non sarebbe male che Agnone possa avere, localizzato in una delle sue tante graziose piazzette di città d’arte, un vero e proprio “monumento allo Sbetico” per riconoscere un personaggio poliedrico che ha svolto, nell’Italia rurale e periferica, un ruolo importante e non sempre riconosciuto persino nel contribuire, a modo suo, all’unità nazionale attraverso un incontro sentimentale e matrimoniale tra nord e sud, tra sud e nord. Agnone, dunque, capitale globale dei sensali (non solo matrimoniali)?… perché no?!… contribuirebbe ad aumentare la sua già notevole notorietà internazionale, specialmente per via della più antica fonderia di campane del mondo, la Marinelli. Ancora di più di come sta avvenendo nel comune di Tombolo (Padova) che ha voluto erigere un monumento al sensale delle fiere. Il personaggio-simbolo di Michele Lemme può essere una risorsa socio-culturale, da inserire addirittura nelle celebrazioni della Festa di San Valentino del 14 febbraio, nella “Festa dell’Amore”!!!… Perché sì, senza forzare troppo, lo Sbetico non era altri che un “sacerdote dell’amore” o, piuttosto, un “Cupìdo” a comando…
8 – SULLA STAMPA MOLISANA
Caro Tito, sperando che qualche studioso o appassionato (meglio se ente pubblico socio-culturale come la RAI-TV o l’Università del Molise o l’Università di Bologna) vogliano approfondire l’avvincente e storico vissuto della << EMIGRAZIONE MATRIMONIALE >> così come il personaggio dello Sbetico, ho diffuso la vicenda della signora Venerina Ingratta e del “sensale” Michele Lemme attraverso un comunicato-stampa inviato a numerosi organi d’informazione nazionali (specialmente regionali di Molise ed Emilia-Romagna). Finora hanno pubblicato i siti web www.altomolise.net (dir. Mariarosaria Carosella) e www.gambatesanews.it (dir. Vittorio Venditti) giovedì 18 febbraio 2021 (https://www.altomolise.net/notizie/varie/32034/agnone-anni-1945-1980-il-sensale-michele-lemme-e-le-spose-molisane-in-emilia-romagna) – (https://www.gambatesanews.it/?p=575738 , mentre www.ecoaltomolise.net (dir. Maurizio D’Ottavio) ha pubblicato alle ore 17.30 di lunedì 22 febbraio 2021 e alle ore 10.00 di martedì 23 febbraio 2021 ha postato Vittorio Labanca ( https://www.facebook.com/1628587406/posts/ 10222738002791871/? sfnsn=scwshmo ).
Ho diffuso molto tale articolo pure via “WhatsApp” ad amici e conoscenti, avendone parecchi riscontri positivi, a volte persino esaltanti. Un’ovazione, come potrebbe avvenire in teatro o al cinema. Come, ad esempio, il medico Massimo Catauro che mi ha inviato il seguente messaggio: “Lo Sbetico … quando ero piccolo e facevo il tabaccaio, veniva a comprare le Nazionali”. Quindi adesso sappiamo che Michele Lemme fumava le sigarette Nazionali, quelle allora più popolari e meno costose. Poi, domenica 21 febbraio 2021 alla pagina 11 di Agnone, il quotidiano cartaceo PRIMO PIANO MOLISE ha pubblicato (per interessamento del corrispondente Maurizio D’Ottavio) quasi a tutta la pagina e per intero il suddetto mio articolo con il titolo: << Quando le ragazze del Sud si sposavano per “commessa”>>.
9 – I MATRIMONI MISTI
“Mogli e buoi dei paesi tuoi” esortava un famoso proverbio, che però non ha retto (né avrebbe mai potuto) alla travolgente trasformazione sociale in quella che possiamo definire “éra della mescolanza” o epoca della globalizzazione in cui i popoli si mescolano sempre più (la pandemia del Covid-19 ne è dimostrazione evidente e tangibile, ma anche triste e dolorosa). Tuttavia, il fattore culturale e di mentalità delle origini di ognuno di noi gioca ancora (volenti o nolenti) un ruolo assai importante, determinante e, a volte, addirittura decisivo e alla base di incomprensioni, pregiudizi e, quindi, di separazioni tentate, di fatto o formalizzate. Ne ho accennato pure io (quasi 14 anni fa) alle pagine 123 – 125 del sesto volume del “Libro-Monumento per i miei Genitori” (maggio 2007). Ho documentato che, nonostante tanti casi andati a buon fine (che a mio parere sono una “eccezione”), generalmente i matrimoni misti (contratti da sposi di diversa estrazione sociale, culturale, regionale, nazionale, ecc.) hanno bisogno di una marcia in più, una grande volontà e motivazione (amore o interesse) per andare bene e durare possibilmente in accordo e armonia. Ma, il più delle volte, sono matrimoni assai problematici, per loro natura, anche se a volte l’Amore può fare e fa autentici miracoli!… Ma i miracoli sono, appunto, una eccezione, se non proprio una vera e propria “rarità”!… La figura (teatrale o cinematografica) dello “Sbetico” Michele Lemme potrebbe essere, tra tanto altro, pure una piccola-grande riflessione sull’amore e sul matrimonio. Oggi visto anche in versione LGBT (lesbici, gay, bisessuali e transgender), considerato che sta emergendo con forza questo aspetto non trascurabile pure per quanto riguarda la maternità e/o la paternità (tema che potrebbe andare a ruota nel contesto dello “Sbetico”). Altri temi che potrebbero andare a ruota sono i maltrattamenti in famiglia e persino il “femminicidio” (specie se confrontato con la mansuetudine delle donne che sono state protagoniste della “emigrazione matrimoniale”). Verrebbe fuori pure il sempre strisciante “razzismo nazionale” del nord verso il sud (che adesso ha assunto significati e contorni globali nelle intolleranze anche territoriali, ideologiche e violente oltre che razziali). Insomma, ci sarebbe da lavorare, da dire e fare parecchio. Ovviamente per un “mondo migliore” (finalità di ogni buon agire umano e sociale).
Certo, spesso per i contraenti matrimoniali è troppo difficile e complicato tornare indietro, specie quando si è diventati genitori plurimi. Ma oggi come oggi è possibile far sì che abbiano una preparazione aggiuntiva coloro i quali appartengono a stili di vita e ad ambienti diversi e, a volte, addirittura troppo opposti. Infatti, alla lunga, l’Amore o altre pur forti motivazioni non bastano a sorreggere adeguatamente una vita di coppia o familiare (anche a dispetto della pur amorosa presenza di figli e di altre condivisioni, persino vocazionali). “L’amore non basta” tuonava 40 anni fa dal palcoscenico di Agnone l’autore e regista teatrale Renato Fidone di Scicli (Ragusa). Può essere però assai utile la rassegnazione di una delle due parti, come ad esempio è stata la storia della signora Venerina Ingratta, appena raccontata, e di tante altre donne emigrate dal sud al nord Italia (o viceversa) per matrimoni misti, pur appartenendo paradossalmente ad un’unica nazione ma a mentalità ed usi spesso contrastanti. Ma ciò significa che il peso di una convivenza deve essere sopportato quasi tutto da una sola parte, con le conseguenti immancabili implicazioni. Ho la netta impressione che tutte le stazioni socio-pedagogiche (come lo Stato, le Religioni, la Scuola e la Cultura in genere) aiutino poco chi si appresta a contrarre un matrimonio misto. Ritengo che ci voglia molta attenzione in tale settore che sta acquistando sempre più importanza nella vita delle coppie, delle famiglie e del futuro delle nazioni e del mondo nel contesto di una globalizzazione troppo affrettata. Ma tant’è!?!… L’inveterata idea del “sacrificio” o della “vittima sacrificale” è sempre in agguato.
10 – SUD SERBATOIO DI LAVORATORI
Si possono contare a milioni i lavoratori meridionali emigrati in massa (nel dopoguerra, specialmente nei 40 anni considerati, tra il 1945 e il 1985) verso il nord Italia, in particolare nel cosiddetto triangolo industriale di Milano-Torino-Genova (nord-ovest) e poi in Emilia-Romagna e nel Triveneto (nord-est). Le politiche governative e le mentalità dell’epoca (che, tutto sommato, persistono ancora) hanno preferito far spostare le persone e non il lavoro con le industrie e i servizi. Così, grandi masse di lavoratori sono state costrette a lasciare definitivamente i propri paesi pur di ottenere una qualsiasi occupazione di sopravvivenza e di vita, desertificando di fatto immensi territori di buona parte dell’Italia, soprattutto le regioni meridionali e le isole condannandole all’insignificanza e a subìre tutta una serie di gravissime e conseguenziali problematiche. Problematiche che, per quantità e qualità, non valeva proprio la pena innescare poiché alla lunga hanno reso, complessivamente, assai fragile l’intero sistema-Italia (come stiamo purtroppo constatando da qualche decennio). Tuttavia (nonostante l’immane costo inter-generazionale e territoriale, individuale e sociale, economico e di prospettiva) l’Italia ufficiale si bea, sebbene Cenerentola, di fare parte dei 7 Grandi del mondo occidentale (G7). Ma a che prezzo?!?… Conviene sacrificare un intero popolo e un già troppo delicato territorio “ad libitum” e a “debito” (per chissà quante altre generazioni), ipotecando il suo futuro per le manie di grandezza e di ricchezza di pochi, schiavizzando italiani ed immigrati?…
Purtroppo tale fenomeno non è, comunque, soltanto italiano. E’ avvenuto e continua ad avvenire in tutti i Paesi che si fondano sull’industria, sul terziario e su tutte quelle attività di “avidità avanzata” che attirano lavoratori di ogni categoria e da ogni parte del mondo, provocando squilibri epocali di ogni genere. Come hanno evidenziato, già 50 anni fa, i docenti universitari anglo-tedeschi Stephen Castles e Godula Kosack nel loro importante e voluminoso lavoro “Immigrazione e struttura di classe in Europa occidentale” edito in Italia da Franco Angeli nel 1976 (490 pagine). Questi due sociologi, che conosco personalmente e con i quali ho dialogato a lungo, sono venuti a studiare l’emigrazione pure a Badolato nel 1973 e nel 1974.
11 – DONNE DEL SUD NELLE RISAIE DEL NORD PADANO
Gli immigrati giunti in grandi masse nelle maggiori città del nord Italia negli anni tra il 1945 e il 1985 dovevano pur mangiare, così come dovevano mangiare i residenti, specialmente dopo le forti privazioni della guerra appena tragicamente conclusasi. Era quindi necessario potenziare il sistema produttivo agricolo che, tra l’altro, mirava pure al consumo nazionale interno (come il riso) ma anche alle esportazioni estere (come, ad esempio, il vino). Così dal meridione italiano (e, quindi, anche da Badolato e dintorni) le aziende agricole chiamavano operai, tramite collocamento o tramite incaricati o “caporali”… persino tramite i parroci o i partiti! E’ avvenuto così per gli operai destinati alle vigne dell’astigiano. Alcuni di questi operai sono rimasti in quelle zone, diventando produttori a loro volta. Ma il fenomeno più sofferto mi sembra essere stato quello dell’emigrazione stagionale femminile nelle risaie e negli orti del nord padano.
Caro Tito, in questa “Lettera n. 320”, vorrei almeno farne breve menzione e rendere onore e memoria storica alle donne che (specialmente negli anni 1945-1985) sono state protagoniste di questa emigrazione agricola-matrimoniale-definitiva (portando ad esempio la storia di Venerina Ingratta) o soltanto agricola-stagionale (come le storie emblematiche di Angelina Pàparo e di Maria Simonetta). Ma, prima di presentare tali storie individuali come esempio del fenomeno più generale, voglio accennare brevissimamente alla ricognizione che nel 2004 ne ha fatto per le mondine il trimestrale “La Radice” di Badolato diretto dal prof. Vincenzo Squillacioti. Ecco un estratto dal testo de “La Radice” per come riportato il 16 ottobre 2004 dal sito web http://www.galluccifausto.it/badolato/eventi/new.asp?id=38.
<< Nel 1961 … qui da noi, cinquanta nostre donne, abitualmente impegnate in agricoltura, partirono per le risaie della provincia di Pavia. Quasi a mo’ di storico omaggio, vogliamo qui ricordare alcuni nomi: Vittoria Argirò, Caterina Battaglia, Rosa Carnuccio, Antonella Maria Teresa e Vincenzina Carnuccio, Teresa Fiorenza, Raffaela Lanciano, Filomena Paparo e due sue figlie, Marianna Procopio (cui attingiamo per questa pagina-ricerca). Ma scopriamo tanti altri nomi, perché l’esperienza delle mondine badolatesi si è ripetuta nel 1962 e nel 1963, con parziale annuale ricambio. Tre le più anziane Concetta Epifani, Caterina Lentini, Domenica Peronace. Ma sono state mondariso anche Rosa Campagna, Domenica Carnuccio, Caterina Ermocida, Concetta e Caterina Gallelli, Gina e Provvidenza Gallelli, Teresa Gallelli, Vittoria Leto. E tante altre.>>.
12 – AVVERTENZE SULLA << AZIENDA-CLAUSURA >>
Caro Tito, come già sai, uso sottoporre in modi e forme preventive agli interessati i testi delle mie “Lettere” perché siano approvati da loro ed abbiano tutti i crismi di verità e correttezza, pure per rispetto di chi ci legge e non soltanto per etica professionale. Adesso, passo passo, ti riferisco di un fatto che non ha alcun precedente nella mia attività giornalistica ufficiale che si protrae dall’aprile 1965 (ben 56 anni). Lunedì 01 febbraio 2021 per 55 minuti dalle ore 16.36 ho intervistato telefonicamente la signora Angiola Pàparo (detta Angelina), nata in Badolato il 10 giugno 1944, poiché dal 1958 al 1962 ha lavorato in una grande azienda agricola in un Comune della cintura nord di Milano, distante appena 7 km dal Duomo. Ho inviato il testo di tale intervista ad un erede di tale azienda agricola la quale oggi conta altri discendenti. Nella telefonata (durata appena 2 minuti e 57 secondi) delle ore 19.32 di lunedì 15 febbraio 2021, l’erede (cui avevo sottoposto via email la verifica dell’esattezza del testo 27 ore prima, domenica 14 febbraio 2021 ore 16.45) mi ha chiesto di eliminare dal resoconto il riferimento riconoscibile al nome, alla proprietà e al luogo dell’azienda. Come per dire “si dice il peccato ma non il peccatore”. Ripeto, è la prima volta che mi capita una cosa del genere e ancora non me ne so spiegare il perché. Ma è una volontà da rispettare, senza tuttavia censurare o addirittura negare i fatti storici. Dunque, diciamo i fatti, senza far riconoscere alcuni protagonisti. In fondo, cambia veramente poco. Certo sarebbe stato storicamente più completo avere i dati e i riferimenti di tutti gli attori della vicenda che intendo evidenziare. Poi ognuno la pensi come meglio crede. E spero che l’indagine storica riesca a portare verità oggettiva e scientifica su questa che si è rivelata una “azienda-clausura” per circa 130 giovani lavoratrici provenienti in gran parte dalla nostra Calabria.
E allora, caro Tito, non mi resta che riportare quanto rilasciatomi nell’intervista poi arricchita e confermatami più volte dalla signora Pàparo nella stesura finale. Un particolare. Ho accertato pure dalla viva voce dell’erede che la signora Pàparo nel 1958 (all’età di 14 anni) gli ha fatto da baby-sitter quando questi era infante, essendo nato nel 1955. Adesso, l’importante è dare gli strumenti-base di conoscenza a chi eventualmente avrà voglia e modo di approfondire tale argomento che (volenti o nolenti) fa parte della storia di centinaia di lavoratrici e delle rispettive comunità di provenienza, nonché dell’intera comunità lombarda e nazionale. Perciò, mi sembra giusto superare, per quanto possibile e senza ledere diritti altrui, qualsiasi impedimento per restituire onore e memoria ai loro grandi sacrifici.
13 – ANGELINA PAPARO NEGLI ORTI MILANESI (1958-1962)
Caro Tito, nel periodo che consideriamo (1945-1985) la manodopera meridionale (maschile ma soprattutto femminile) è stata abbondantemente utilizzata anche dal sistema agricolo del nord Italia, specialmente nella pianura padana, sia nelle risaie che negli orti, sia nella lavorazione della frutta che nelle vigne e nelle vendemmie, sia poi nel turismo che in tanti altri settori produttivi. Adesso riporto quanto ho potuto sapere da due donne di Badolato (CZ) che hanno partecipato all’emigrazione stagionale negli anni 1958 – 1985: la suddetta signora Angelina Pàparo e la signora Maria Simonetta detta Marietta (nata a Cortale – CZ – il 19 novembre 1940) andata in sposa domenica 08 dicembre 1963 a mio cugino Antonio Lanciano (Badolato 02 febbraio 1937 – 16 giugno 2002). Entrambe vivono in Badolato Marina. Cominciamo con la signora Pàparo.
Ripeto che lunedì 01 febbraio 2021 per 55 minuti dalle ore 16.36 ho intervistato telefonicamente la signora Angelina Pàparo (qui nella foto di Gori Campese, 2020), compaesana di Badolato Marina, amica di famiglia da parecchi decenni. Mi ha detto che è stata reclutata dal signor Titino del vicino paese di San Sostene (CZ), quando lei aveva appena 13 anni e 8 mesi, per andare a lavorare (assieme ad altre donne della nostra zona) negli orti di una grande azienda agricola posta nella più immediata cintura settentrionale del capoluogo lombardo. Le donne dovevano pagarsi il biglietto del treno dalla Calabria a Milano e viceversa, né era previsto un rimborso. Ricordo che a quel tempo anche i treni a lunga percorrenza (come quelli dal sud estremo per Milano) avevano carrozze con sedili di legno, come ho potuto constatare io stesso fino al settembre 1975. E il viaggio poteva durare (salvo i frequenti forti ritardi) anche 24 ore. Tali proprietari avevano un’azienda agricola pure nella provincia di Foggia, nella Puglia settentrionale, i cui prodotti venivano integrati con quelli in lavorazione nella sede centrale per il mercato ortofrutticolo di Milano città. La signora Angelina mi ha detto che i padroni dell’azienda erano assai gentili con le lavoratrici e che, in particolare, erano assai affettuosi con lei che era ancora una ragazzina (circa 14 anni, il primo anno 1958), ma lavorava meglio di un’adulta perché era molto lesta e volenterosa proprio come ha ampiamente dimostrato con grande successo in età adulta in tutte le sue attività ed imprese commerciali da titolare. I proprietari a volte la portavano sulla bicicletta nel recinto della proprietà (per trasferirla tra differenti lavorazioni), altre volte la utilizzavano per prendersi cura di un loro figlio o di un loro familiare. Dimostrava così la sua natura assai duttile e cordiale, solare e altruista nel fare e nel volere sempre il bene delle persone, senza nulla togliere al suo lavoro e al suo dovere principale.
In quella grande azienda il ciclo di lavorazione avveniva direttamente sul terreno estesissimo (tutto recintato) e in una struttura edilizia (tipo cascina) che sembrava però una caserma militare, dove le donne (in 130 circa, 100 calabresi e 30 pugliesi) alloggiavano in un dormitorio comune con servizi essenziali ma assai spartani. I materassi erano riempiti con la paglia presa direttamente dalle donne nel fienile delle stalle. Ciò che mi ha colpito ed impressionato, caro Tito, è stato l’apprendere che alle donne non era assolutamente concesso di uscire dal recinto di quella vasta proprietà nemmeno nel poco tempo libero a disposizione, né potevano ricevere visite e questo addirittura ininterrottamente per 9 mesi da marzo a novembre, anno dopo anno. Non c’era nemmeno un telefono a gettoni per poter chiamare o per ricevere. Due suore fornivano l’occorrente per scrivere lettere che poi spedivano così come distribuivano la posta in arrivo. Infatti, la gestione dei ritmi di quella specie di “clausura” (semi-monacale o semi-militare) era affidata a queste due suore molto severe che imponevano la rigidissima visione cattolica della vita e potevano addirittura comminare multe con decurtamento della paga mensile. Intervenivano sulle donne persino sulla liceità morale ed estetica del loro abbigliamento, censurandole!… Quelli purtroppo erano i tempi e le mentalità!… Ti ricordo che le riforme cosiddette “flessibili” o “democratiche” del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo (11 ottobre 1962 – 08 dicembre 1965) erano ancora di là da venire. Infatti, le lavoratrici erano obbligate, anzi costrette a recitare il rosario in cappella la mattina appena sveglie e la sera dopo cena (nonostante la stanchezza per essersi spezzate la schiena sui campi o nei vari magazzini), ma anche a recitare le preghiere inginocchiate accanto al letto appena alzate e prima di coricarsi, così come nel mettersi a tavola per i pasti. La domenica mattina erano altresì obbligate a seguire la Messa, interrompendo il lavoro per poi riprenderlo subito dopo (ma allora perché si lavorava nei festivi, anche se solo di mattina, se la loro religione lo proibiva?). Messa che (soltanto durante le grandi feste comandate) le donne potevano seguire nella chiesa della cittadina, condotte in fila per due (come collegiali) dalle stesse suore, però potendo così almeno uscire dal recinto seppure per poco più di un’ora!
Un apparecchio televisivo è arrivato in quel posto soltanto nel 1962, dopo quasi 8 anni dall’inizio delle trasmissioni TV su tutto il territorio nazionale (03 gennaio 1954), tenendo presente che nella zona di Milano il segnale era eccellente. L’unico giradischi esistente era proprio di Angelina Pàparo, la quale (da leader nata e da giovanissima) cercava di tenere allegre le altre donne, che ballavano tra di loro, la domenica pomeriggio. Ovviamente non c’era un servizio di lavanderia ma ogni donna doveva badare a sé stessa e al proprio posto letto e (a gruppi, a turno) tenere pulito quotidianamente il refettorio, il dormitorio, i bagni e altri servizi e spazi comuni. Se qualcuna aveva una esigenza nutrizionale diversa dal rancio fisso e obbligato, doveva acquistare dalle suore. Il riscaldamento, quando faceva troppo freddo, era assicurato al minimo da stufe a metano. Considerato che per ben 9 mesi queste 130 persone dovevano soltanto lavorare senza uno svago, mi meraviglio come mai la proprietà non abbia pensato di far proiettare un film (non dico tutte le domeniche, ma almeno una volta al mese)! … A Milano, che era a meno di 7 km da quel luogo, ci sarà stata la possibilità di noleggiare un proiettore ed una pellicola cinematografica, anche in collaborazione con i cinema parrocchiali, visto e considerato che il tutto veniva gestito essenzialmente da suore! Invece niente e per tutti i 5 anni dell’esperienza della signora Pàparo, la quale non ha registrato alcuna attenzione nemmeno da parte della proprietà: le donne erano lì soltanto per lavorare per 9 lunghi mesi senza altro conforto o benefica distrazione. Certo, caro Tito, non possiamo ragionare con i parametri di oggi su ciò che avveniva 60 anni fa. Tuttavia, mi sembra logico che 130 persone vivevano in uno spazio senza alternative e senza alcun lecito intrattenimento per ben 9 lunghi mesi, da marzo a novembre. Lasciamo alla sensibilità dei nostri Lettori (ma ancora meglio di eventuali ed auspicabili studiosi) una più attenta considerazione di tali fatti. A me personalmente una tale situazione aziendale non quadra tanto nemmeno tenendo presente la mentalità di quegli anni che io ho pure vissuto proprio nel nord padano nel 1960-61 e nel 1964.
Dunque, il periodo residenziale delle donne meridionali andava da marzo fino a novembre. Partecipavano ai lavori agricoli anche donne provenienti ogni mattina da altri paesi lombardi, vicini o lontani (specialmente dalla bergamasca) ma solitamente impiegate in zone diverse dell’azienda. Tuttavia, quando avveniva occasionalmente un qualche contatto tra i differenti blocchi di lavoratrici, i rapporti non erano molto buoni per almeno due motivi. Primo, perché in quegli anni era assai accentuato il “razzismo” verso i meridionali (venivano chiamati “terroni” o addirittura “mangia-sapone”). Secondo, perché le meridionali erano andate lì (tanto lontane da casa, a oltre 1200 km, e in luogo sconosciuto) per lavorare e guadagnare il più possibile anche con il cottimo e gli straordinari, adottando un ritmo di lavoro assai pressante e ciò non era gradito alle lombarde che agli occhi dei padroni dell’azienda pare rendessero di meno delle meridionali. Tre tanti altri requisiti, le donne meridionali dovevano essere tutte nubili, una condizione rigorosa per poter lavorare. La signora Angelina Pàparo mi ha riferito di una certa Francesca Fraietta, proveniente da Guardavalle (CZ), che era sposata ed aveva un bimbo (lasciato in paese, alla cura di alcuni familiari) ma ha dovuto nascondere tale situazione e dichiararsi “nubile”, avendo assoluta necessità di lavorare.
La vita di quella comunità di lavoratrici era scandita dai seguenti orari (con una disciplina – ripeto – di tipo militare o in stile conventuale): alzata facoltativa ma bisognava essere pronte per la recita del rosario in cappella, la prima colazione e poi in cortile tra le 06.30 e le 06.45 per ricevere gli ordini di lavoro che ufficialmente iniziava alla 07,00 fino alle 12,00. Poi pausa pranzo con conseguente riordino della cucina, del refettorio e lavaggio delle stoviglie da parte delle stesse donne. Quindi, ripresa del lavoro sui campi o nel laboratorio di pulizia e impacchettamento dei prodotti agricoli dalle 13.30 fino alle 17.00 sempre con possibilità di straordinari o cottimo. Nelle domeniche e nelle festività si poteva lavorare dalle ore 07.00 alle 12.30 ma verso metà mattinata era obbligatorio assistere alla Messa. Risultava fastidioso per le lavoratrici andare sui campi, poi lavarsi e cambiarsi per partecipare alla Messa e poi ritornare sui campi e rientrare a cambiarsi per il resto della giornata. In caso di maltempo le giornate non lavorate non venivano pagate, quindi si trattava pure di dover recuperare questi fermi imprevisti. Così come non venivano conteggiate le assenze per troppo freddo, dovuto anche al ghiaccio, anche se il cielo era sereno e c’era il sole. Il che accadeva spesso tra marzo e aprile, tra ottobre e novembre.
Solitamente alcuni uomini (che abitavano nei paesi vicini o in altra zona dell’azienda) preparavano il terreno con i trattori ed altri mezzi agricoli e badavano alle stalle (cavalli, bovini, maiali, asini e altri animali domestici cui era destinato l’invenduto), poi le donne posizionavano le piantine nel terreno, curavano e raccoglievano i prodotti, preparandoli per l’invio al mercato generale. Non c’era per rigoroso regolamento alcuna occasione di contatto tra gli uomini dell’azienda e le donne. Pranzo e cena avevano un menù fisso (quasi sempre riso e verdure o minestroni), per integrazioni alimentari si comprava dalle suore. La pasta (pare di non buona qualità o non cucinata bene) era prevista soltanto il giovedì e la domenica. Nel menù non erano mai previsti né formaggi, né pesce, né carne. In pratica le lavoratrici dovevano pagarsi tutto riguardo il vitto, o direttamente o per le trattenute dell’azienda che pare offrisse soltanto l’alloggio.
Ricordo che a Badolato, nel 1958 la paga giornaliera di una donna in agricoltura era di circa 300, massimo 500 lire (per gli uomini 800, massimo mille lire) a seconda del tipo e durata del lavoro. Nell’azienda considerata, Angelina Pàparo (che aveva ancora 14 anni e, quindi, lavorava in nero, perché non poteva essere iscritta ufficialmente nei registri né avere i contributi per la pensione INPS non avendo ancora 16 anni) riceveva una paga oraria di 88 lire (e non riceveva alcun premio di produzione anche se dimostrava grande attivismo e resa), mentre le donne dai 16 anni in su prendevano 127 lire. La cosa che mi ha colpito spiacevolmente, caro Tito, è che tali lavoratrici ricevevano i soldi guadagnati alla fine dei lavori stagionali (cioè a novembre, all’atto di tornare a casa) ma potevano avere dei piccoli acconti per le spese necessarie e ordinarie. Ovviamente, le somme finali percepite non prevedevano gli interessi maturati da marzo a novembre, al rientro nelle loro residenze. Se non sbaglio o in presenza di altre sconosciute motivazioni, appare conseguenziale che i datori di lavoro trattenessero per sé tali interessi. A quei tempi e in quell’àmbito agricolo, le lavoratrici non erano del tutto consapevoli dei propri diritti né avevano alcuna copertura sindacale così come potevano avere, invece e in modo molto efficace, gli operai delle fabbriche milanesi e di altri settori produttivi.
Una vita molto sacrificata come si può notare per queste donne meridionali, tra duro lavoro e inconcepibile “clausura”. L’isolamento di quella specie di “caserma agricola” e altre difficili situazioni dovute alla rigorosa disciplina delle suore a volte esasperavano le lavoratrici, alcune delle quali si ribellavano, ma ricevevano puntualmente le rappresaglie (o il “castigo”) dalle stesse suore e persino multe. Le donne erano costrette a chinare la testa e ad accettare simili difficili condizioni di vita e di lavoro, spinte dalla necessità. Ogni donna aveva solitamente una situazione particolare che l’aveva spinta ad emigrare così lontano. Ad esempio, Angelina Pàparo doveva impegnarsi di più perché era rimasta orfana del padre due anni prima e si sentiva in obbligo di aiutare la numerosa famiglia, anche se nel marzo 1958 aveva appena 13 anni e 8 mesi quando ha messo piede per la prima volta in quell’azienda. Lavorava molto, con puntualità e grande senso di responsabilità, ed era assai apprezzata dai padroni, pure perché era una “leader” nata, una magnetica aggregatrice delle compagne. Dato il ben visibile talento, se fosse stata aiutata a studiare sarebbe sicuramente diventata una grande manager, come poi ha dimostrato negli altri periodi della sua vita. E probabilmente avrebbe avuto attitudine persino per l’attività politica o di amministratrice. L’anno seguente 1959 è stato un po’ diverso e sicuramente migliore per Angelina, perché in quell’azienda ha avuto con sé (ma in via del tutto eccezionale, proprio per il suo alto rendimento produttivo e anche per la sua considerevole capacità di reclutamento) pure la madre ed un fratellino di 9 anni che i padroni utilizzavano per commissioni varie e, durante la bella stagione, per distribuire alle lavoratrici acqua al limone.
<< I periodi passati a Milano sono stati assai duri e sacrificati. L’unica cosa bella – mi ha detto la signora Pàparo – era la meravigliosa amicizia e solidarietà che ho avuto con alcune donne provenienti dai paesi della nostra zona di Soverato. Ed è stata proprio per questa grande amicizia e solidarietà tra donne che ogni anno tornavo in quella specie di carcere >>. Infatti, con alcune di queste “amiche del cuore” si sente ancora adesso per telefono, altre sono morte nel frattempo perché più anziane di lei. In particolare, si scambia visite e regali con Pina Dolce, Concetta Carioti e Piera Cosentino originarie del vicino comune di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio. Ricorda ancora con molto affetto anche Sara Carioti, Luisa Còrapi e le sorelle Rosa e Giuseppina Procopio di San Sostene, Anna Boncuore di Davoli. A riprova che aveva uno speciale talento e carisma di aggregazione sociale, nella stagione agricola del 1959, Angelina Pàparo è riuscita a reclutare ben 27 ragazze badolatesi per l’azienda agricola, dove ha lavorato per cinque anni, fino al 1962. Gli stessi proprietari sono venuti da Milano a Badolato per vedere l’ottimo lavoro di reclutamento effettuato da Angelina. Di queste 27 ragazze ricorda le sorelle De Paola (Francesca, Domenica e Teresa), le sorelle Emanuele (Maria, Rosa e Pina), Domenica Piroso, Pina Piroso, le sorelle Carnuccio (Francesca e Teresina), le sorelle Garretta (Rosa e Immacolata), Giuseppina Caporale, le altre sorelle Carnuccio (Teresa e Giuseppina ) … Nell’estate 1962, Angelina è stata poi chiesta in sposa dal bravissimo mio vicino di casa Vincenzo Fiorenza, il quale l’ha portata all’altare sabato 26 gennaio 1963 e, quindi, a Sesto San Giovanni (Milano) dove egli lavorava alla Breda Siderurgica. Assieme ad altre tre figure di donne eccezionali nella mia Wita, ho evidenziato la signora Angelina Pàparo nell’opuscolo “CARPE DIEM” che si può avere ancora in omaggio digitando il seguente link … https://www.costajonicaweb.it/lettere-a-tito-n-319-ricordiamoci-che-dobbiamo-morire-e-in-omaggio-lopuscolo-carpe-diem/.
14 – UNO DEGLI EREDI DELL’ORTAIA
Caro Tito, dopo vari tentativi telefonici, dalle ore 16,33 di domenica 14 febbraio 2021 per 29 minuti sono riuscito a parlare con uno degli eredi dell’azienda agricola in questione, nato nel 1955. Nella conversazione ho appreso altri particolari sulle braccianti agricole presenti dal 1958 al 1962 nelle “ortaie” della cintura milanese. Intanto mi ha precisato che tali lavoratrici venivano chiamate “mondine” poiché “mondavano” il terreno dalle erbacce, così come le più conosciute “mondine” delle risaie. Poi mi ha detto che (nei primi due decenni dell’immediato dopoguerra) attorno alla città di Milano c’erano circa 350 ortaie, ossia aziende agricole che contribuivano a fornire il necessario dei prodotti ortofrutticoli ai negozi e, quindi, agli abitanti del capoluogo lombardo, tramite il mercato ortofrutticolo.
Mi ha informato che il reclutamento avveniva pure chiedendo ai parroci dei vari paesi meridionali di interessarsi a convincere le ragazze ad andare a lavorare negli orti milanesi. Inoltre, mi ha voluto precisare che la “clausura” delle ragazze era stata chiesta dalle stesse famiglie di provenienza le quali, così, erano più sicure per la sicurezza e la integrità anche morale delle loro figlie. Non saprei dire quanto ciò possa essere credibile o accettabile (nonostante la mentalità meridionale e italiana degli anni 50 e 60 che ben conosco) dal momento che la rigida “clausura” pare non esistesse in altre aziende e, se esisteva, tale fenomeno risulterebbe più che preoccupante, quasi allarmante perché ci dà l’idea di veri e propri “lager” allora esistenti nell’hinterland milanese … quasi a limite del “sequestro di persona”, degli “arresti domiciliari” o addirittura della “reclusione o campi di lavoro, tipo carcerari”!!! L’erede, a domanda, mi conferma che nessuna Università pare si sia finora interessata alla condizione delle “mondine” nelle ortaie milanesi. Non so se le organizzazioni sindacali (milanesi o nazionali) si siano mai interessate di tale situazione o se le Biblioteche o gli Archivi comunali locali abbiano traccia del passaggio di tali lavoratrici meridionali (ad una prima ricerca su Google non ho trovato traccia). Forse sarebbe ora che si faccia qualcosa a riguardo. Caro Tito, ho rintracciato però in internet significativo materiale fotografico (anche dell’epoca delle lavoratrici meridionali) inerente l’azienda cui fa riferimento la signora Pàparo, ma non posso mostrartelo per il tassativo << embargo-stampa>> e per il rispetto della “privacy” richiestami dallo stesso erede, al quale avevo chiesto almeno di fornirmi qualche foto dell’attuale situazione, almeno dell’edificio che fungeva da residenza delle lavoratrici. Insomma chiusura totale, che purtroppo mi tocca registrare malvolentieri.
Comunque sia, invierò questa “Lettera n. 320” ai Rettori, agli Istituti di Sociologia, Storia e Antropologia delle città e delle regioni interessate, sperando che vogliano considerare la possibilità di effettuare un qualche studio sulle 350 ortaie milanesi operanti nel periodo da noi considerato, magari pure affidando tesi di laurea. Ma anche per appurare come e quanto tale emigrazione stagionale meridionale abbia influito sulla << emancipazione >> delle ragazze. Mi rifiuto di pensare, infatti, che tutte le 350 aziende agricole fossero “chiuse” come quella dove ha lavorato la signora Pàparo. Alcune delle ragazze che sono passate dalle ortaie milanesi sono poi rimaste, per scelta o per matrimonio, nell’hinterland milanese, avendo trovato qualche altro lavoro o occasione di permanenza. Invierò questa Lettera 320 pure all’Archivio di Stato di Milano, alla Coldiretti e alla Confagricoltura, ai Sindacati e ad altri soggetti territoriali, sperando che ne facciano buon uso. E chissà che, in un futuro prossimo o remoto, tale testo non possa divenire pure opuscolo a stampa.
15 – MARIA SIMONETTA NEGLI ORTI DEL MILANESE (1965-1985)
Lunedì 01 febbraio 2021 dalle ore 15.08 per 24 minuti ho avuto una conversazione telefonica con la mia cugina acquisita Maria Simonetta, detta Marietta, la quale (nata a Cortale – CZ – il 19 novembre 1940) ha sposato domenica 08 dicembre 1963 mio cugino Antonio Lanciano (Badolato 02 febbraio 1937 – 16 giugno 2002). Riguardo la sua partecipazione alle emigrazioni stagionali negli orti della Lombardia dal 1965 al 1985, mi ha detto che ci era già stata sua cognata Vittoria Rossi (nata in Badolato il 06 settembre 1940) in periodi precedenti al matrimonio contratto nel 1964 con mio cugino Vincenzo (Badolato 16 gennaio 1945) fratello del predetto Antonio.
Nell’autunno 1964 Vittoria ha convinto i coniugi Antonio e Marietta, suoi cognati, ad andare a lavorare nella Cascina di Angelo Lattuada a Baranzate, località che fino al maggio 2004 è stata una popolosa frazione del Comune di Bollate mentre adesso è Comune autonomo, a una manciata di km dal Duomo di Milano, con una fiorente agricoltura a 150 metri circa sul livello del mare. Così, Antonio e Marietta da metà marzo fino al 25 novembre 1965 hanno effettuato il loro primo anno di lavoro negli orti dell’azienda Lattuada, ripetendo tale esperienza per venti anni, cioè fino al 1985, alloggiando in una zona riservata, essendo coniugi, della cascina che ospitava, in un dormitorio comune, circa 40 donne, alcune delle quali provenienti proprio da Badolato, in parte reclutate dai questi miei cugini. In tale residenza, le lavoratrici erano libere di uscire per la cittadina di Baranzate e oltre. Infatti i miei cugini trascorrevano quasi tutte le domeniche in giro per Milano e dintorni per andare a trovare nostri compaesani, parenti o amici.
I ritmi di lavoro prevedevano un orario orientativo (a seconda della durata della luce del sole) tra le 07.00 e le 18.00 con pausa pranzo tra le 12 e le 13. Si lavorava pure la domenica mattina per metà giornata. Ovviamente anche in questa “ortaia” Lattuada esistevano gli straordinari ed il cottimo. Il salario veniva dato ogni sabato. Nella cascina non c’era un telefono a gettoni a disposizione (però almeno le lavoratrici potevano uscire nel centro abitato) né un apparecchio televisivo. Mia cugina Marietta si è detta assai contenta di aver trascorso queste 20 annualità agricole nei dintorni di Milano, pure per avere avuto la possibilità di fare esperienze nuove, specialmente di amicizie, che non avrebbe potuto fare se fosse rimasta a Badolato. Negli anni questi miei cugini hanno potuto portare con sé i loro tre figli, abitando a Baranzate. Come si può notare, c’era una differenza enorme tra l’azienda agricola dove lavorava la signora Angelina Pàparo e questa di Lattuada; e possiamo immaginare che negli stessi anni o decenni nelle 350 aziende-ortaie milanesi c’erano diversi metodi di trattamento dei lavoratori. Sarei proprio curioso di appurarne le differenze!
16 – L’AGRICOLTURA DEGLI IMMIGRATI DELLA GLOBALIZZAZIONE
Caro Tito, questo argomento sui lavoratori stagionali meridionali nell’agricoltura padana (in particolare nella semina, cura e raccolta di prodotti ortofrutticoli destinati a negozi, mercati e supermercati) ci porta a considerare come e quanto sia cambiato tale mercato del lavoro da qualche decennio in Italia con l’inserimento (più o meno legale) di immigrati provenienti da tante parti del mondo. Le loro baraccopoli (alcune delle quali andate a fuoco) e i tragici fatti di Rosarno in Calabria e nella provincia di Foggia in Puglia ci hanno dato, in questa nostra attualità, la dimensione spesso molto drammatica delle condizioni in cui sono costretti a stare i lavoratori che vengono sfruttati e maltrattati indegnamente.
Però, non tutti gli Stati permettono cose simili. Ad esempio in Canada, i proprietari delle cosiddette “Farm” (aziende agricole) devono attenersi a regole e a protocolli di umanità e di rispetto dei lavoratori che, in gran parte provengono dall’America centrale (Messico, Jamaica, ecc.). I proprietari di tali aziende agricole sono tenuti a pagare loro il viaggio, offrire l’alloggio, dare una paga riconosciuta dal governo, accompagnare i lavoratori in città a fare la spesa una volta la settimana. Come puoi notare, caro Tito, pare che in Canada ci sia una civiltà del lavoro più progredita rispetto alla nostra, che pur si vanta di essere più antica e tra le migliori del mondo. Ho potuto constatare di persona tale situazione durante la mia permanenza di 22 giorni (agosto-settembre 1994), specialmente nelle <<greenhauses>> (serre agricole) di Leamington in Ontario, tenute in gran parte da italiani e, in particolare, da emigrati (di prima, seconda e terza generazione) da Villa Canale di Agnone del Molise.
17 – EMIGRAZIONE SPOPOLAMENTO E PAESI IN VENDITA
Caro Tito, non posso evitare di accennare al fatto che l’emigrazione meridionale (definitiva o stagionale) al nord o all’estero abbia contribuito notevolmente allo spopolamento dei nostri borghi e all’eccessivo impoverimento delle nostre campagne, con tutte le tristi e risapute conseguenze che soffriamo (più o meno) direttamente pure noi. Come abbiamo visto, buona parte dell’emigrazione stagionale è man mano diventata (per scelta o per matrimonio) definitiva al nord o all’estero.
Pure per questo mi sembra pertinente inserire, almeno per tre motivi in tale contesto, la foto “Badolato vendesi” opera nella primavera 1988 di due giornalisti francesi per un noto periodico parigino, di cui adesso non ricordo il nome. Primo perché, appunto, tale foto è legata a quello svuotamento quasi totale dei nostri borghi e alla desertificazione del nostro territorio calabrese e meridionale in genere, tanto che il 7 ottobre 1986 mi ha indotto a dare l’allarme proprio con l’operazione “Badolato paese in vendita in Calabria” (pure come prototipo di tutto lo spopolamento europeo e globale) e che, come sai, ha avuto tanto clamore anche all’estero e qualche beneficio non soltanto per il mio borgo antico. Secondo motivo perché l’articolo e la foto a corredo del giornale francese sono stati ripresi e rilanciati poco qualche giorno dall’allora noto settimanale italiano “L’EUROPEO”. Terzo perché tale foto era quasi del tutto sconosciuta ai badolatesi e ai calabresi in genere e devo ringraziare di vero cuore la dottoressa badolatese Caterina Rudi (1962) la quale l’ha ritrovata dopo quasi 33 anni nel suo archivio personale e che adesso ha messa a disposizione mia e dei “social” per donarla specialmente alle nuove generazioni le quali poco o niente sanno di quegli anni epici del “Paese in vendita” (1986-88) che hanno così segnato uno spartiacque, una maggiore consapevolezza e un più diffuso senso di lotta non soltanto per Badolato ma per i tantissimi borghi sofferenti o addirittura agonizzanti, alcuni persino morti. Ma che alcuni tentano di rivitalizzare al massimo possibile.
18 – APPELLO PER LA VERITA’ SULLE DONNE DEL SUD
Caro Tito, come ho già accennato, invierò questa “Lettera n. 320” ai Rettori di tutte le università italiane, a Istituti di studio-ricerca-documentazione, a singoli sociologi, antropologi, meridionalisti e a quanti altri possano essere interessati, invitandoli a voler trattare e ad approfondire il tema principale di questa nostra descrizione-promemoria. Intanto, ho già inviato un breve estratto della presente lettera al quadrimestrale “La Radice” di Badolato perché possa essere pubblicata nel fascicolo del 30 aprile 2021.
Ritengo che le donne del sud abbiano il diritto di essere ricordate ed amate per tutti i loro troppo sacrifici nel mondo del lavoro, della famiglia e della società … sacrifici patìti in modo maggiore e peggiore rispetto ad altre donne italiane. Mi riferisco pure e in particolare alle cosiddette “vedove bianche”. Nel nostro caso, anche se non sposate (ma in età fertile ed amorosa), mi chiedo … possiamo considerare “vedove bianche” le donne della “azienda-clausura” dell’hinterland milanese dove ha lavorato la signora Angelina Pàparo?… Ribadisco che è antipatico vedere le cose con “l’occhio e con il senno del poi”… tuttavia oggi come oggi mi chiedo: quell’azienda potrebbe forse essere considerata un “lager” ed avrebbe potuto essere accusata di “sequestro di persona” anche se tratteneva in clausura le lavoratrici “formalmente” per il loro bene e con il loro obbligato consenso?… Sicuramente, è un fatto anomalo quanto è avvenuto, almeno ai tempi vissuti in quel contesto dalla signora Pàparo … Sono, quindi, assai lieto che il mio paese, Badolato, abbia voluto erigere un “Monumento alle donne” che hanno sofferto e lottato per i diritti di tutti, inaugurato nel giardinetto sito tra la Via Nazionale e la Via Garibaldi l’8 marzo 2008 nel 99° anniversario della Festa delle Donne!
19 – GINEVRA DELL’ORSO SUL NOSTRO JONIO
Caro Tito, in attinenza ai paradigmi dell’orto e per evidenziare un altro tipo di rapporto femminile nord-sud italiano, ti presento il caso (non raro, anzi sempre più frequente, pure per la possibilità di praticare il lavoro a distanza) della scrittrice e giornalista milanese Ginevra Dell’Orso la quale il 18 luglio 2010 (quasi 11 anni fa) è venuta a vivere definitivamente in un piccolo borgo sullo Jonio del nostro comprensorio di Soverato ed ha scritto pure “Il piccolo libro delle ricette dell’orto” (2017) curando il sito web https://www.ilcalendariodellorto.com cui partecipa pure il nostro Nazareno Circosta maestro naturalista e “Premio Gigante della Calabria 2019” per i suoi grandi meriti a favore della Natura.
Sabato 20 febbraio 2021 un amico mi ha inviato, via “whatsapp”, il seguente testo, ripreso da “facebook” … << PERCHE’ SEI ANDATA A VIVERE IN CALABRIA? >> domanda fatta a Ginevra Dell’Orso, la quale, dopo anni dedicati alle Pubbliche Relazioni e all’Interior Design, ha deciso di mollare la folle frenesia di Milano e di Los Angeles per vivere tutto l’anno sulla nostra costa jonica catanzarese, pur continuando ad amare molto pure il vicino borgo di Badolato, precedentemente conosciuto nell’anno 2000 e che considera “un luogo che porta alla meditazione e alla ricerca interiore, avendo sullo sfondo il mare” e dove da 21 anni ha una graziosa casetta che solitamente “affida” in affitto per condividere meglio le bellezze e le soavità del nostro territorio dalle 4 dimensioni (mare, collina, montagne e lago della Lacina). Vorrei ricordarti che pure il giornalista Federico Quaranta (Genova 27 marzo 1967), conduttore di vari programmi televisivi Rai di successo, stravede per la Calabria. Nel video intitolato LA VERA CALABRIA (riscontrabile su << https://www.facebook.com/estateincalabria/videos/581195406088450/ >>) così esordisce: “La Calabria è la terra che ti stupisce di più… là dove la realtà supera la fantasia” e poi dà mega-parametri di comparazione come a dire “Se ti aspetti cento, la Calabria ti dà mille”. Ma passiamo a Ginevra Dell’Orso e alla sua magnifica risposta. Ecco cosa ha scritto …
20 – ELOGIO ALLA CALABRIA, TERRA DELLO STUPORE
La Calabria è una regione anomala, per certi versi “surreale”, che vanta numerosi primati, tra cui molte unicità. E’ la regione con il più alto tasso di disoccupazione, ma al tempo stesso ha l’aria più pulita e la biodiversità più alta in Europa. Non c’è una folle corsa al turismo, ma possiede più di 800 chilometri di costa dalle quali si ergono alte vette di montagna… da cui si può persino sciare contemplando il paesaggio. Ci sono pochissime industrie, pochi abitanti, ma una natura che regna sovrana e incontrastata… Ci sono Canyon e cascate, città millenarie e megaliti. Per non parlare del cibo: quest’anno il New York Times l’ha addirittura eletta la regione in cui si mangia meglio in Italia: non tanto per le ricette (che in realtà sono abbastanza povere) quanto per la qualità delle materie prime.
Ogni anno che passa il mondo si accorge di questa regione dimenticata, e quasi timidamente cerca un approccio per nulla scontato: bisogna avere una visione del mondo un po’ particolare per amare questo posto. Bisogna saper vedere, e non guardare! Bisogna cercare tra le piccole strade dei borghi antichi, arroccati sulle colline che si affacciano sui due mari, senza paura di trovarsi proiettati in un mondo antico, ancora protetto, talvolta ingenuo, ma con tanta voglia di curiosare nel futuro.
Quando ho lasciato Milano per trasferirmi qui, ho incontrato sempre il disappunto della maggior parte dei miei conoscenti, che vedevano in questo mio trasloco, una specie di fuga, di ritiro “spirituale” per scappare da un luogo frenetico e assatanato come la mia città. In realtà, non ho nulla contro Milano: ci sono nata e cresciuta, ho incontrato le persone che ancora fanno parte della mia sfera affettiva, ed è da qui che partono le mie origini. Ma la vita è breve, e il pianeta è troppo grande per circoscrivere l’esistenza ad una piccola parte di mondo. Volevo crescere i miei figli in un luogo “incantato” ma che non fosse necessariamente disconnesso dalla realtà. E volevo soprattutto rimanere in Italia… perché, nonostante tutto, adoro questo paese!
Non è stato facile ricominciare tutto da zero: inventarsi un lavoro, cercare una casa in cui crescere due bambini, entrare nella psicologia del luogo, farsi accettare dagli abitanti e al tempo stesso accettare tanti aspetti culturali che sono distanti anni luce dai miei e dalla mia visione esistenziale. Eppure, a distanza di quasi 7 anni, eccomi qui a scrivere un capitolo della mia vita che vuole elogiare, e ringraziare, questo luogo meraviglioso.
C’è una frase molto bella che ho sempre cercato di fare mia: “concentrati sulle cose belle che hai, piuttosto che dedicare i tuoi pensieri a quello che non hai”. Infatti, nonostante mille difficoltà, più guardo quello che succede nel mondo, e più sono felice di vivere in questa terra. E non sono sola: sempre più persone decidono di staccarsi dal sistema dominante e optano per una scelta alternativa, fatta più di momenti e meno di cose. Chi ha fatto questa scelta come me, lo sa bene. Nel mio solo paese, in cui siamo poco più di 200, abitano personaggi che provengono dalle parti più disparate, e sembrano tutti usciti da qualche romanzo.
Del resto, per vivere qui serve fantasia, amore, incanto: bisogna sapersi ancora stupire davanti alla bellezza della natura quando, in primavera, selvaggiamente, ricopre ogni centimetro di terra di fiori di ogni tipo. Bisogna riuscire a provare una sorta di riverenza quando i venti di tramontana sbraitano in inverno e riempiono i cieli di arcobaleni. Bisogna ancora riuscire ad emozionarsi quando le coppie di delfini solcano i mari e le tartarughe raggiungono l’acqua dopo che si schiudono le uova.
E poi c’è il cielo… un cielo che chiunque sia passato da queste parti non può dimenticare. Tutte le declinazioni del blu si manifestano dall’alba al tramonto: persino le nuvole sembrano quelle dei cartoni animati. A volte soffici e spumose, a volte intagliate dai venti. E poi c’è il mare… onnipresente, persino dalle vette più alte dei monti. In fondo, la Calabria è una grande montagna che si tuffa in acqua: è verde, verdissima, sempre in fiore. E’ ricca di sorgenti, di fiumi e fiumare che scendono a valle a dividere i confini di ogni paesino.
Il borgo in cui vivo io, è forse uno dei più vicini al mare: dall’alto di una collina, incastonata tra due fiumi che, dalle montagne, danno origine ad una vallata, ho preso la mia casa. Una classica abitazione locale, costruita con pietre di fiume, con i muri spessi quasi un metro, circondata da alberi, querce secolari, e tanto, tanto verde. All’orizzonte il mar Jonio, alle spalle le montagne, e intorno il paesino e il fiume. Ovunque si perda lo sguardo, è sempre un bel vedere. Neanche due chilometri, ed ecco la spiaggia, che per almeno sei mesi è il mio rifugio, la mia palestra, la mia meditazione, il mio referente quando si tratta di prendere decisioni importanti… il mio divertimento. Un mare speciale, pulito, popolato da pesci, cristallino, profondo… molto profondo! Un mare che conoscono ancora in pochi… e forse per questo è ancora così affascinante!
Per anni mi hanno chiesto: ma come fai a stare in un posto in cui non c’è niente? Niente? Questo “niente” è tutto! E’ tutto quello per cui valga la pena essere su questo pianeta. No, non sono calabrese… nessuno dei miei parenti è calabrese, e non ho sposato neanche un calabrese. Semplicemente, questo posto mi ha rapito con la sua bellezza, con la sua ostinazione, con il suo essere tanto cruda e al tempo stesso intrisa di magia. Io l’ho scelta, l’ho affrontata, l’ho persino sfidata quando mi ha messo al bivio delle scelte che capitano solo rare volte nella vita… e sono ancora qui, felice di aver scelto quella più difficile ma più emozionante. Per questo non finirò mai di ringraziare questa terra, questo angolo di mondo ancora vero, palpitante, in cui si può ancora sognare e credere ai piccoli miracoli quotidiani.
Grazie a questo mare pieno di vita, al verde dominante, alla gente del mio piccolo paesino e di quelli vicini; grazie al fiume che mi fa addormentare ogni notte e grazie a quel pezzo di terra fertile in cui coltivo i migliori ortaggi del mondo… Grazie ai profumi inebrianti della primavera, che credevo fossero un’esclusiva di qualche isola esotica, e grazie a tutta questa natura che se ne frega dell’uomo e delle sue regole e si appropria di tutto ciò che vuole. P.S. …e grazie a mio padre, che mi ha fatto conoscere sin da bambina questo incanto che tutt’ora vivo pienamente!
21 – SALUTISSIMI
Caro Tito, chiedo scusa a te e ai nostri Lettori se non ho potuto essere più preciso ed esaustivo nel descrivere un periodo lontano quasi 60 anni e in un luogo remoto anche geograficamente come le “ortaie” delle campagne milanesi o l’emigrazione matrimoniale. Questa mia è solo e semplicemente una lettera e il suo scopo è unicamente quello di dare un minimo di memoria sociale alle migranti stagionali della nostra zona jonica del comprensorio di Soverato (così come nel 2004 il periodico badolatese “La Radice” ha voluto rendere omaggio alle “mondine” badolatesi nelle risaie di 50-60 anni fa, con la penna del prof. Vincenzo Squillacioti, direttore di tale sempre più preziosa rivista). Spero che coloro i quali hanno più tempo, energie e motivazioni di me vogliano approfondire tale argomento.
Ti ricordo che sabato scorso 20 febbraio 2021, l’ex-ferroviere di Reggio Calabria (attivo pure a Badolato e dintorni negli anni 50), compare Demetrio Spanò, ha felicemente compiuto 101 anni (nella foto è con il primogenito figlio Pino). Ne avevamo scritto lo scorso anno pure per la festa del centenario benedetto dal sindaco Giuseppe Falcomatà in riva allo Stretto e poi sulle colline di Ortì Superiore con la partecipazione di tutti i concittadini del suo paese natìo (https://www.costajonicaweb.it/lettere-a-tito-n-271-ferroviere-demetrio-spano-di-reggio-calabria-e-i-suoi-cento-anni-ricordando-isca-e-badolato-cz/). Compare Spanò deve la sua longevità pure al suo orto biologico dove, da sempre e ancora adesso, unisce la genuinità dei prodotti alla ginnastica contadina (fisica e mentale) e ai più veri e semplici valori rurali. Riesce a fare tuttora pure i deliziosi “fichi secchi” di cui sono assai goloso fin dall’infanzia e che mi manda gentilissimamente ogni anno. Grazie di vero cuore!
Grazie ancora e sempre anche a te per la sempre gentile ospitalità. Alla prossima Lettera n. 321 che tratterà dell’interessante libro “Io, in quarantena” che lo psichiatra isernino (ma nato a Platì di R.C.) Domenico Barbaro ha voluto scrivere per fissare emozioni, sofferenze e nuovi valori provocati dalla pandemia del Covid-19 nella sua prima ondata del 2020. Raccomando ai nostri cari Lettori di non mancare questo altro interessante appuntamento fra una settimana circa, pure perché tale libro sarà dato in omaggio in formato PDF. Cordialità,
Domenico Lanciano (www.costajonicaweb.it)
Iter Love City, mercoledì 24 febbraio 2021 ore 07.12 (le foto che non sono mie sono state prese dal web o da altri autori citati nel testo).