Di Francesca Dallatana Parma, 17 novembre 2024 - In fabbrica i colleghi hanno scelto un soprannome per lui. Il suo nome per un italiano è difficile da ricordare: Djakhongir Gadaev.
Lo chiamano Jack. Un nome internazionale prima che anglofono.
Jack è uzbeko. Viene da Samarcanda. Laureato in Fisica, vive e lavora in Italia dai primi anni del duemila. E’ di poche parole. Ha un’etica del lavoro quasi protestante. Lui la riferisce alla formazione sovietica.
In Italia ci sono pochi lavoratori migranti di provenienza uzbeka. A Parma gli uzbeki sono una rarità.
Oltre alla lingua italiana, Jack parla russo, turco e persiano. E uzbeko. Il persiano, il turco e il russo sono una sintetica parte dell’eredità storica del Paese.
Uzbekistan, Asia centrale.
Senza sbocchi sul mare, l’Uzbekistan e gli uzbeki rivolgono il loro immaginario e la loro tensione alla migrazione soprattutto a un’altra parte del mondo.
“Molti uzbeki vanno a lavorare a Dubai e in Qatar, in Corea del sud, negli Stati Uniti d’America. Anche l’Afghanistan rappresenta un mercato interessante. E’ un Paese nel quale gli uzbeki sono sempre andati a fare business. E ci vanno anche adesso. Nella parte nord dell’Afghanistan ci sono molte persone uzbeke di origine.”, fa notare Jack.
La posizione geografica del Paese, nel corso del tempo, ha attratto capitali e interessi industriali di diversa provenienza. A metà degli anni Novanta sono arrivati i turchi e Jack ha lavorato per loro. Dopo la laurea conseguita a Samarcanda ha lavorato per l’Iveco, uno stabilimento attivo nella sua città.
“Iveco Otoyol: si chiamava così lo stabilimento per la produzione di autobus e camion. Il capitale era turco per il 49% e uzbeko per il 51%. E’ stato il mio primo lavoro come elettricista industriale.”
Quale è lo stile di lavoro dei turchi? Come si lavora con loro? “I turchi sono molto precisi. Molte macchine dello stabilimento erano italiane e tedesche. In fabbrica lavoravano circa duemila operai. E il lavoro era organizzato in tre turni. L’Iveco produceva in una fabbrica che precedentemente aveva ospitato una fabbrica sovietica. Gli operai avevano già una tradizione e una cultura del lavoro molto forte quando sono arrivati i turchi.” Sintetico nelle risposte, così come è puntuale un elettricista industriale nella costruzione e nella manutenzione di un impianto: on, off.
Dopo i turchi, gli italiani. Intorno al duemila, l’interesse economico degli europei allunga lo sguardo verso i Paesi dell’ex Unione sovietica. E coinvolge anche Jack e richiede la sua competenza professionale:
“Ho messo in moto una fabbrica del settore tessile, produttrice di cotone. Lo stabilimento ha dato lavoro a dieci donne e a tre uomini. Ho installato tutti i macchinari. Ho progettato e installato l’impianto elettrico industriale. Tre mesi di lavoro. E tre mesi di assenza da Iveco Otoyol. Che nel frattempo ha assunto un’altra persona. Perché la mia aspettativa si era protratta più a lungo del previsto.” Alla descrizione del lavoro presso la fabbrica tessile, Jack alterna nomi di colleghi italiani incontrati e conosciuti in Uzbekistan. Li ricorda senza incertezze. A testimonianza di un importante legame professionale e umano. Lo dice più di una volta durante l’intervista. “Il lavoro unisce. Proletari di tutto il mondo unitevi. Il lavoro rende forti”. Non lascia sfuggire la frase, forte dell’orgoglio del lavoro. Radicato su impegno e competenza. E disponibilità a mettersi in gioco.
Ed è proprio questa la marcia innestata con decisione alla fine del lavoro con Iveco Otoyol.
Italia.
In Italia arriva con un visto per affari. Grazie alla relazione con i referenti dell’azienda conosciuti in Uzbekistan. Un cordone lo collega al Paese: la sorella lavora e vive qui da tempo e parla la lingua: in Italia ha una famiglia. Lavora subito, Jack. Nell’azienda del cognato, elettricista anche lui. Non parla la lingua ma la studia, la impara, ogni giorno una parola in più. I sei mesi di visto scadono.
“Non so per quale motivo ma il mio visto aveva la lettera C. Significa: non rinnovabile. Invece la lettera D permette il rinnovo. Sono ritornato in Uzbekistan. E ho raggiunto di nuovo l’Italia con un visto turistico di venticinque giorni. All’epoca era così. Alla fine del periodo sono rimasto qui da clandestino”, ancora Jack.
Alla condizione di clandestinità non dedica spazio. Neanche una parola per dire della preoccupazione e della tensione emotiva. Ma un riferimento preciso: legge Bossi-Fini, che a fronte del pagamento di una sanzione pari a novecento euro gli riconosce il permesso di soggiorno. “Nel 2003 ho ottenuto un permesso di soggiorno per due anni. E ho ricominciato a lavorare con mio cognato. Con il quale abbiamo progettato e costruito impianti elettrici per scuole e uffici. Fino a che abbiamo avuto le commesse.”
Poi, il lavoro entra in sonno. E Djakhongir Gadaev detto Jack comincia la ricerca del lavoro sul territorio. Le agenzie per il lavoro al tempo vivono un boom di lavoro. E’ il 2005. A Parma Jack si sposta in bicicletta. Visita tutte le agenzie, consegna il curriculum, si presenta. Al tempo si faceva ancora così anche se la modalità era già sul punto di entrare in disuso e di essere superata dalla asettica celerità della rete Internet.
Lavoro Più è la prima agenzia ad assumerlo: lo mandano a lavorare all’ospedale maggiore: “era in corso la costruzione dell’impianto alla Torre delle Medicine.”, ricorda il lavoratore. Poi Creyf’s, agenzia per il lavoro fusa in seguito con un’altra società del settore. Continua Jack: “mi hanno proposto un colloquio presso SMA Serbatoi, a San Prospero. Dal punto di vista di un parmigiano, di uno che pedala da Parma capoluogo, l’azienda si trova quasi a Reggio Emilia, quasi a Sant’Ilario! Sei mesi di contratto con l’agenzia più altri sei mesi di tempo determinato. Poi, l’assunzione da parte dell’azienda.”
Diretto al punto. Nessuna venatura di preoccupazione per il tempo determinato. Nessuna paura. Assenti le inutili rivendicazioni: “siamo operai. Siamo lavoratori. Quando c’è il lavoro si lavora.”
Un’etica del lavoro di granito. Più forte del suono che fanno le parole.
Jack in bicicletta, con il permesso di soggiorno in tasca, riconquista un posto dove esprime la sua professionalità, eredità di strati della Storia e di migrazioni. La sua biografia rappresenta una delle possibili sintesi della storia uzbeka. Ma anche della storia dell’industria europea, che si è avvalsa dalla manodopera formatasi professionalmente in un quadro storico-culturale precedente al crollo del Muro di Berlino. “Ti ho aspettato per trenta anni mi ha detto il responsabile del personale di Aschieri-Montaggi. Dove sei stato? Mi ha chiesto. Mi ha fatto vedere uno schema elettrico, mi ha chiesto di leggerlo e di spiegarlo. E ho cominciato a lavorare con loro e a fare armadi elettrici. Dall’Inotec di Fidenza fino ad Eulip, l’azienda di oggi.”
Il lavoro e il saper fare: il passepartout per la permanenza in terra italiana. Che ha permesso stabilità e radicamento in Italia. Dove Jack ha messo radici affettive e professionali.
“Sono in attesa della cittadinanza. Ma penso di tornare a Samarcanda. Non ora, ma quando finirà il tempo del lavoro e potrò avere una pensione. E quando sarà finita questa guerra fra Russia e Ucraina. Un conflitto inutile. Non serve fare la guerra agli ucraini. E non serve fare la guerra ai russi. Si devono fermare. Non si fa la guerra da soli. Intanto il popolo sta soffrendo.”
A scuola di lavoro.
Samarcanda è lontana, ma non sbiadisce. “Samarcanda è molto bella. E’ una città difficile in estate. Si superano anche i cinquanta gradi. Il clima è continentale. In autunno, invece, è davvero straordinaria. I meloni di Samarcanda sono molto buoni.”
A Samarcanda l’Occidente è una fotografia della memoria e dell’immaginario.
Architetture e clima tradiscono un'altra appartenenza culturale. Riportano ad un’altra Storia. Una pagina di quella Storia è l’unione delle repubbliche socialiste. Nel 1992, i Paesi baltici esprimono la loro dissociazione dall’organizzazione sovietica, per usare un eufemismo. “Nel 1992 noi abbiamo votato a favore dell’Urss, per rimanere nell’Urss.”, dice il lavoratore Djakhongir Gadaev.
Parla di se stesso, ma scatta una istantanea alla vita sovietica: “La mia etica del lavoro viene dall’Unione sovietica. Vengo dal proletariato. Sono un proletario fino al midollo osseo. Il mio lavoro, la mia capacità professionale la devo all’Unione sovietica. A scuola, abbiamo imparato a usare la fresa, il tornio, a saldare. Io sono un frigorista di secondo livello. In Unione sovietica un operaio era molto apprezzato. Quando gli chiedevano uno stipendio più alto, Stalin rispondeva così: se vuoi uno stipendio più alto scendi in miniera a scavare il carbone: lo stipendio è molto alto. Altrimenti, accontentati di quello che c’è. Ma agli stipendi e al costo della vita in unione sovietica avevano e avevamo pensato. L’unione era suddivisa in fasce. A Mosca i prezzi erano più bassi perché gli stipendi erano più bassi. Perché si produceva di meno. In Uzbekistan gli stipendi erano più alti, quindi anche i prezzi erano più alti. Era una sorta di scala mobile. Lo Stato aiutava anche nell’acquisto di elettrodomestici. Lo Stato assegnava le case e i cittadini pagavano una quota simbolica. Lo stipendio serviva per andare a teatro, al cinema, al ristorante.”
Di Parma e dell’Italia che cosa non piace al lavoratore Jack? “Parma è casa mia. Ma di Parma e dell’Italia non mi piace il costo della vita. E’ troppo alto per un operaio.”
All’operaio Djakhongir Gadaev detto Jack mancano il cinema, il teatro e il ristorante del dopo lavoro. Arte e cultura e tempo libero in Occidente hanno un costo troppo alto per un operaio.
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