Di Francesca Dallatana Parma, 8 dicembre 2024 -
Professione: iena. Le iene lavorano in coppia. Una delle iene è psicologo. L’altro è un terapeuta. Il loro è un lavoro di attesa. Una professione socio-sanitaria. Prendono ai morti per dare carburante ai vivi.
Aspettano la telefonata dell’avvisatrice. Quando squilla il telefono dall’altra parte del filo una voce asettica come una sala operatoria scandisce un nome, un numero di telefono, una data e un’ora. E il nome della persona deceduta. Il tempo è poco. Le iene riattaccano la cornetta e la rialzano per comporre il numero del familiare e per convocarlo all’ospedale. Non dichiarano immediatamente la morte del congiunto.
Creano l’aspettativa, gettano manciate di incredulità e stupore nel lasso temporale necessario per raggiungere il loro ufficio. Preparano il lavoro del medico che dovrà svuotare il corpo come la carcassa di un’automobile. Per prendere i pezzi ancora utili, quelli in buone condizioni. Alcuni servono subito: in questo caso un’avvisatrice telefona al corpo destinatario del pezzo di ricambio. Altri pezzi verranno congelati e serviranno in seguito. Le iene conducono un colloquio che prevede la comunicazione dell’avvenuto incidente e del decesso e la firma per l’autorizzazione all’espianto degli organi.
Il mestiere di iena sta sul confine tra la vita e la morte: una vita che risorge grazie a un organo donato da una che si è appena spenta. “Io me ne vado”, dato alle stampe in Italia dalla casa editrice Ponte alle Grazie, è un romanzo veloce e duro.
L’agilità rende tagliente la scrittura.
L’autore è Philippe Claudel, scrittore e sceneggiatore francese.
Il personaggio è uno psicologo con un vissuto traumatico non rielaborato. Ha vissuto il lutto per la morte della compagna in contemporanea alla nascita della loro figlia.
Il romanzo è una lettera ideale indirizzata alla figlia. E mette in scena una profonda crisi professionale intrecciata al vissuto intimo e all’ambientazione di riferimento.
Il lavoro è la miccia che dà fuoco alle polveri emotive. I vivi non pensano mai ai vivi e alla loro precarietà. I vivi diventano visibili e molto presenti nei pensieri solo da morti, appena morti.
Le iene agiscono a decesso avvenuto. Rapide, dirette, ciniche.
Questo è il diario di un crollo emotivo.
Palcoscenico lavoro.
Il lavoro è uno dei setting privilegiati per l’emersione delle caratteristiche personali.
Philippe Claudel affida alla coinvolgente ed empatica prima persona dello psicologo protagonista la narrazione della quotidianità di se stesso e del collega, nella versione professionale di iene.
Il setting è il confessionale. Le iene lo chiamano così. E’ lo spazio dedicato al ricevimento dei familiari. Dove mettono in scena la fredda competenza della capacità di comunicare, fingere di comprendere il dolore altrui e terminare la seduta a obiettivo raggiunto.
Il tempo del confessionale è determinato e breve. Non può sforare da una certa durata. Perché si rischia di non concludere. Potrebbe disperdersi nei rivoli dell’auto analisi e della narrazione liberatoria. Dare un ritmo all’incontro e contenerlo in un tempo definito è uno dei compiti delle iene.
Ma lo psicologo narratore del romanzo di Philippe Claudel racconta molto di più. Racconta se stesso e la vita con sua figlia nel tempo del non lavoro. E fotografa l’ambiente sociale di riferimento: Parigi anni duemila, cioè l’attuale ambiente sociale dell’Europa occidentale.
Realtà e rappresentazione, verità e ipocrisia dell’apparire. Il collega descritto dall’io narrante mostra una forte dipendenza dall’apparire. E’ capace di mantenere l’equilibrio dell’ipocrisia di fronte ai familiari ed ha chiaro l’obiettivo da raggiungere e l’importanza del ritmo temporale. Al lavoro questo collega è indentificato sulla busta paga come terapeuta. Ed è lui ad indossare la maschera della professionalità. Nel privato della relazione con il protagonista principale tradisce significative tracce di voyerismo e di morbosità. Dei due è comunque quello più adeguato al ruolo.
Ma nella sostanza è quello più stretto dentro la maschera della mansione. Mentre l’io narrante esonda di sofferenza per il lutto congelato nella scatola nera del passato e per la forte dissonanza con l’ambientazione sociale di riferimento.
Platea sociale.
I quadri del romanzo si spostano dall’ufficio del lavoro, dove è esposta una fotografia in tanga della moglie del collega-iena-terapeuta, al piccolo appartamento e al lettino della figlia bambina della iena-io narrante.
Dall’ospedale alla casa con un intermezzo metropolitano frenetico e fagocitante come può essere solo una grande città multipolare e in preda a una irregolare velocità che schizza fuori dagli schemi.
Dentro casa: una bambina di ventuno mesi; non vuole mangiare; non vuole crescere. Dentro casa: la tenerezza del ricordo della compagna ricacciato in gola come le lacrime mai espresse. In sua assenza, dentro casa: una babysitter dagli abiti trash, con le cuffie alle orecchie, che si sposta sui roller per le strade di una Parigi ansimante e frettolosa.
Sulle pareti della metropolitana: pubblicità esplicite di spettacoli teatrali affidate ad un voyerismo volgare: quattro metri per tre: “un enorme slip maschile in cotone bianco a coste” e il contenuto in rilievo ed evidente su uno sfondo nero. “Non c’era niente altro: ventre, cosce, niente. Soltanto lo slogan: Bigard ci dà dentro. Una spiegazione grottesca e volgare, una sorta di pornografia della stupidità che mi s’impone e in cui mi si obbliga a profondare con milioni di altri. Tutto questo mi dà la sensazione di essere uno straniero, un uomo che non riconosce più le strade, le vie dove i suoi simili si accalcano ogni giorno. Credo di non volere più seguirli.”
Un bar aperto nelle ore notturne diventa il rifugio dello psicologo protagonista in una notte d’angoscia. Una donna di mezza età consegnata al diktat dell’apparenza fa la barista per vivere. Nel tratteggio del personaggio professionale si finge giovane, felice e leggera. Una bugia dalle ossa frantumate sul materasso sfondato della manciata di metri quadrati dove si ritira a dormire, una stanza fredda e sudata come una cantina. Non si è consegnata all’alcolismo ma al dovere della magrezza e ha sostituito il cibo con le pozioni magiche degli integratori. E’ giovane da sempre e per sempre: una maledizione nel tugurio sbrecciato dove porta gli uomini di notte dopo il lavoro.
Il collega iena-terapeuta è uno dei personaggi dello sfondo sociale al quale l’autore dedica attenzione. Sfodera il vero se stesso allo stadio, dove spara fuori l’aggressività sedata nelle ore di lavoro: indossa una parrucca blu, beve birra per riscaldarsi prima dell’ingresso fino a farsela addosso, urla bestemmie e volgarità e rimane confinato nel recinto degli ultrà controllato dalle forze dell’ordine. Invece al lavoro è una iena impeccabile. Capace di fredda ipocrisia travestita da idealizzazione dell’obiettivo.
L’ipocrisia del collega-iena si traveste di idealità. Cala la maschera della rappresentazione solo nel tempo di attesa della telefonata dell’avvisatrice. Nel tempo di lavoro recita la parte alla perfezione.
Iene sociali.
E’ duro ma è nobile il lavoro delle iene. Raggiungono l’obiettivo della donazione degli organi solo se sono cinicamente orientati all’obiettivo. Vietato entrare in risonanza empatica con il familiare del defunto. Importante ottenere la liberatoria in tempi brevi, pena l’impossibilità di trapiantare gli organi.
E’ un lavoro di attesa e pazienza, a catena. La frequenza la decide il caso. E’ un lavoro da fare in coppia per contenere sbavature emotive, per ricacciare nelle guide dell’ipocrisia professionale inutili eccessi di umanità.
La iena-terapeuta indossa la maschera del ruolo alla perfezione. La iena-psicologo-io narrante trasuda sofferenza.
Il gioco perfetto della coppia di professionisti si rompe di fronte a una familiare.
Il terapeuta aggredisce lo psicologo per cancellarne l’umanità dell’azione.
La familiare gli aveva richiamato alla memoria il lutto personale archiviato nella penombra. Il vissuto condiziona il lavoro. E il lavoro, tempo di vita prestato alla professione, non ne è indenne.
“Non me ne vado”, dichiara il protagonista alla figlia alla fine del libro. Ed è come dire: non lascio la scena della vita ma non è detto che io continui a fare questo lavoro.
Non tutti possono garantire la tenuta nel ruolo di iena sociale.
Il libro termina con una promessa di tenuta affettiva ed emotiva, dedicata al futuro della figlia.
(Link rubrica: La Biblioteca del lavoro e lavoro migrante ” https://gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=francesca%20dallatana&searchphrase=all&Itemid=374
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