Ogni volta che ciascuno di noi passerà qui accanto e, posando lo sguardo su questo piccolo blocco d'ottone, incrocerà idealmente il percorso di Enrico Richetti, che in via XX Settembre aveva aperto il suo negozio di macchine da scrivere.
Un'attività avviata nel 1939, quando Richetti – di origine goriziana – arrivò a Piacenza con la moglie, contando sul supporto di conoscenti per nascondere la sua identità ebraica. La vergogna dell'odio antisemita, proclamato nel Manifesto degli scienziati razzisti apparso sul “Giornale d'Italia” il 14 luglio 1938 e nella “Dichiarazione sulla razza” emanata dal Gran Consiglio del fascismo il successivo 6 ottobre, era ormai istituzionalizzata, divenuta legge con il Regio Decreto del 17 novembre '38 che sanciva i provvedimenti “per la difesa della razza italiana”.
Cosa significasse questo, lo ha richiamato ieri Liliana Segre presiedendo – a pochi giorni dal centenario della marcia su Roma che diede inizio alla dittatura fascista – la prima seduta del neo eletto Senato della Repubblica: “E' impossibile per me non provare una sorta di vertigine, ricordando quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari... ”.
Enrico Richetti aveva già preso le distanze dal partito di regime cui si era iscritto: le critiche espresse contro la spedizione militare in Etiopia gli erano costate, nel 1935, non solo l'espulsione, ma anche la perdita della cattedra di insegnante a Rovigo, costringendolo a cercare una nuova occupazione come rappresentante editoriale e docente in istituti privati a Ferrara e Bologna. Poi la scelta di arruolarsi come volontario proprio in Africa, rientrando pochi mesi dopo per problemi di salute, con il grado di Tenente. Non sarebbe stato sufficiente, in un Paese lacerato dalla guerra civile all'indomani dell'8 settembre '43, a salvarlo dall'arresto il 26 gennaio 1944, a Firenze, dove aveva pernottato mentre era in viaggio per raggiungere, al Sud, i fratelli al servizio degli Alleati.
Trascorrono i mesi, nel carcere di via del Consiglio, da dove Richetti verrà deportato prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, terminando a Dachau – come decine di migliaia di donne e uomini tra ebrei, prigionieri e oppositori politici, persone la cui individualità li caratterizzava come “diversi”, portatori di uno stigma che li rendeva privi di qualsiasi diritto a confronto con il modello ariano: testimoni di Geova, Rom, omosessuali. Basterebbe questo, a cancellare ogni presa di posizione che ha preceduto la posa della prima Stolpersteine a Piacenza: rendiamo omaggio ad Enrico Richetti, vittima della Shoah.
La definiamo spesso di brutalità indicibile, l'ideologia nazifascista dello sterminio di massa, delle persecuzioni antisemite, delle camere a gas come icona di un'umanità calpestata nella sua più intima e profonda dignità. E laddove non possono arrivare le parole, se non quelle che ci sono state lasciate dai testimoni e da coloro che sopravvissero a quell'orrore, abbiamo bisogno dei simboli. Perché questo sono, le pietre d'inciampo, che il loro ideatore Gunter Demnig ha spiegato rifacendosi a un passo del Talmud: “Una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”.
Sento di dare voce a tutti i nostri concittadini che credono nella convivenza civile, nel pluralismo, nel rispetto reciproco e nel dialogo tra le differenze come strumenti di pace, nel dire che il nome di Enrico – così come ognuno di quelli incisi sulle 70 mila pietre diffuse ad oggi in tutta Europa – racchiude tutti i nomi che non conosciamo. Quelli che non abbiamo mai trovato sui libri di storia, nei registri, negli elenchi dei nemici invisi a un regime che, nel nome di un razzismo aberrante, ha perpetrato crimini disumani.
Questo, quando ci capiterà di sfiorare la pietra – magari allungando lo sguardo alle vetrine e provando a immaginare come fosse, quel negozio di macchine da scrivere – siamo chiamati a non dimenticare. Lo sottolineo ringraziando il nipote di Enrico Richetti che è qui accanto a noi e ne porta il nome, rappresentando in questa occasione tutta la famiglia, nonché il presidente della Comunità Ebraica di Parma e Piacenza Riccardo Joshua Moretti. Ed esprimendo la riconoscenza dell'Amministrazione comunale alla professoressa Licia Gardella, che per prima ha avanzato la proposta – supportata dalle preziose ricerche storiografiche di Ippolito Negri – trovando la piena collaborazione dapprima della Giunta Barbieri, con particolare sensibilità e attenzione dell'allora assessore alla Cultura Jonathan Papamarenghi, quindi dell'Amministrazione attuale, in un passaggio di consegne che ha riguardato innanzitutto l'assessorato alla Cultura con Christian Fiazza.
Penso sia importante ribadirlo, perché in questa continuità c'è l'essenza di un valore che non ha colore politico né appartenenza, ma in cui tutti possiamo riconoscerci: l'inviolabilità della vita, su cui nessuna ideologia possa e debba mai più ergersi a carnefice.
(Foto DelPapa)