Sabato, 06 Febbraio 2021 11:30

Le maschere che ridono. Una nuova avventura di Rodolfo Lapidario In evidenza

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Foto di Francesca Bocchia Foto di Francesca Bocchia

Dodicesima  avventura stagionale di questo nuovo ciclo di racconti che ha come protagonista Rodolfo Lapidario, l'agente di pompe funebri che sapeva parlare con i suoi defunti. Avvicinnadosi il "Carnevale anche Rodolfo si adegua... "Le maschere che ridono" 

Di Manuela Fiorini 6 febbraio  2021 - Nell’agenzia di Onoranze Funebri di Rodolfo Lapidario era una mattinata piuttosto tranquilla. Per questo Alma, la sua efficiente segretaria, aveva deciso di impiegarla dando un’occhiata ai cataloghi che i vari rappresentanti di settore avevano lasciato. Da ore sfogliava pagine con immagini di urne funerarie, bare, paramenti, composizioni floreali, corone, lapidi, sete dai colori più o meno tenui. 

Rodolfo Lapidario entrò in quel momento, con la giacca piena di coriandoli sulle spalle. Era Carnevale e nel centro si stava tenendo una sfilata di carri per i bambini delle scuole.

Alma lo salutò con un cenno. 

“Tieni, ti ho portato un caffè del bar…”, disse Rodolfo appoggiando un bicchierino fumante sulla scrivania della ragazza.

“Grazie, ne avevo proprio bisogno”.

A un tratto, la porta dell’agenzia si aprì e si fece avanti un uomo sulla cinquantina, vestito elegantemente, brontolando perché il suo cappotto di fattura sartoriale era invaso dai coriandoli. 

“Manfredi dei Conti Spina!”, lo salutò Lapidario dandogli il benvenuto. “Quanto tempo!”.

L’uomo gli andò incontro stringendogli la mano, poi lo abbracciò come si fa con i vecchi amici che non si vedono da tempo.

“Che cosa ti porta in città? Era da parecchio che mancavi. Non dirmi che…”.

“No, Rodolfo, siamo tutti…vivi. Ma vorrei parlarti di una questione in privato, se non ti dispiace”.

Manfredi lanciò un’occhiata ad Alma. 

“Vieni, andiamo a fare due passi e magari prendiamoci un caffè”, lo invitò Lapidario. 

Appena usciti dall’ufficio Manfredi cominciò a sussurrare, come se nella baraonda del Carnevale tutti potessero essere interessati a quello che dicevano. Raggiunsero un parchetto lontano dal clamore dei festeggiamenti. 

“Non so da dove cominciare, Rodolfo…”, iniziò il Conte Spina. 

“Da dove vuoi. Non farti remore”.

“Sai, quando eravamo a scuola, giravano certe voci su di te…”.

Lapidario si fece attento. 

“Sì, insomma, la tua famiglia aveva un’impresa di Pompe Funebri. Ti chiamavano “il figlio del becchino”, quando passavi tutti facevano gli scongiuri. Senza parlare di quella volta che tuo padre ti venne a prendere con il carro funebre…”.

Lapidario sorrise. In un sol colpo gli erano tornati in mente alcuni episodi della sua adolescenza che allora lo facevano soffrire, mentre ora lo facevano solo sorridere.

“Ma c’era anche un’altra cosa che si diceva di te”, continuò lo Spina, “E che naturalmente nessuno ti ha mai detto in faccia: si mormorava che tu parlassi con gli spiriti dei morti”.

Questa volta, Lapidario deglutì.

“So che può sembrare l’ennesima cattiveria che ti rivolgevano ma…vorrei sapere se questa diceria corrisponde a verità”.

“E perché lo vorresti sapere?”.

Manfredi Spina sospirò: “Recentemente ho recuperato e messo in vendita una delle case di famiglia. Il restauro mi è costato un sacco di soldi, perché non si trattava di una casa qualsiasi, ma di un bene storico, del Settecento, quindi sai com’è. Avevo anche trovato un compratore, un notaio che voleva farci lo studio e sopra l’abitazione per sé e per il figlio. Sembrava che tutto fosse andato bene ma…”.

A questo punto, Spina si fermò. Sospirò e alzò gli occhi al cielo.

“C’è una cosa che non ti ho detto. La casa era abbandonata da tempo, perché correva voce che fosse maledetta, infestata, insomma. Naturalmente, io non ho mai dato peso a queste cose. Però, durante i restauri, nella grande sala con il camino sono state trovate delle strane maschere. Quattro per la precisione. Dallo stile parevano maschere veneziane, originali dell’epoca. Ci credi se ti dico che gli operai hanno fatto di tutto per toglierle dal muro, ma non c’è stato nulla da fare?”.

Lapidario spalancò gli occhi.

“E buttare giù muro e camino non mi pareva il caso. Quindi le ho lasciate dove erano, lasciando al compratore l’onere di liberarsi delle maschere. Solo che, pochi giorni dopo essersi stabilito nella nuova casa, il notaio è tornato da me infuriato, intimandomi la restituzione del denaro speso e minacciando di querelarmi…perché gli avevo taciuto che la casa era stregata!”.

“Ma si può sapere perché?”.

“Prima di tutto, nemmeno lui è riuscito a togliere le maschere dal muro, ma mi ha giurato di averle anche sentite ridere. Se l’è fatta sotto. Era notte, ha preso tutta la famiglia ed è scappato in albergo in pigiama. A nulla sono valsi i miei tentativi di convincerlo che si era immaginato tutto”.

“Perché così non è, vero?”.

“Non lo so. Ma il fatto che le maschere fossero impossibili da togliere dal muro me lo avevano fatto presente anche gli operai che si sono occupati del recupero dell’immobile. E poi, io a certe cose un po’ ci credo. Quando eravamo a scuola, credevo anche al fatto che tu parlassi con i fantasmi”.

“A chi apparteneva la casa, prima di passare a te?”.  

“È sempre appartenuta alla mia famiglia, da generazioni e generazioni”.

“Posso venire a dare un’occhiata, se vuoi, ma devo essere da solo”.

“Ti ringrazio! Ti accompagnerò io stesso e ti lascerò una copia delle chiavi. Io in quella casa maledetta di certo non ci entro più”.

****

Fu così che Lapidario, dopo aver lasciato l’agenzia in mano ad Alma, si fece accompagnare da Manfredi Spina alla bella palazzina settecentesca, finemente recuperata, che si trovava poco prima delle colline. Era stato fatto davvero un bel lavoro, compreso il giardino, con tanto di fontana, aiuole e alberi che, in primavera, avrebbero colorato l’atmosfera con i loro splendidi fiori. 

“Sei sicuro che vuoi rimanere fino a domani?”, chiese Manfredi. 

“Sicurissimo. Non preoccuparti”.

“Allora, passo a prenderti verso le undici di domattina. Mi raccomando, Lapidario, non rimanerci secco…”.

“Nel caso, alle mie spoglie ci penserebbe la mia solerte segretaria”, gli sorrise Lapidario. Poi, con il piccolo trolley dove aveva messo il necessario per la notte e un paio di panini per la cena, entrò nella palazzina.

Subito fu accolto dall’odore di vernice e di colla tipica delle case appena messe a nuovo. Mise il trolley in un angolo e cominciò ad aggirarsi nelle stanze ampie e dai soffitti alti. Era davvero magnifica quella casa. Tre piani. Uno per l’ufficio del notaio e, al primo e al secondo piano, due ampi appartamenti, uno per il notaio e la moglie e uno per la famiglia del figlio. 

Si fermò nella grande sala al primo piano, quella dove si trovava un enorme camino. Adocchiò il divano dove avrebbe passato la notte e notò le quattro maschere veneziane ben ancorate al muro. Due volti di porcellana maschili e due femminili dall’espressione enigmatica e dagli occhi vacui. Si avvicinò per guardarle da vicino, ma non ebbe nessuna sensazione particolare. Provò a staccarne una dal muro e…ci riuscì! Forse il notaio voleva solo una scusa per riaffibbiare a Manfredi Spina la sua palazzina perché non soddisfatto del suo acquisto o perché aveva avuto un ripensamento. Posò la maschera su un tavolino e proseguì il giro. Quando tornò nella sala, tuttavia, non poté fare a meno di notare che la maschera era tornata al suo posto. E, questa volta, era impossibile toglierla dal muro. Come le altre tre. Poco dopo, una ventata di aria gelida raggiunse Lapidario. Un segno e una sensazione che lui conosceva bene. Diede le spalle alle maschere. Poco dopo, nell’aria cominciarono a diffondersi delle risate, prima sommesse, poi sempre più forti. 

“Ok, presumo che state cercando di spaventarmi. Ebbene, non sono così impressionabile”, disse ad alta voce. “Potrete tranquillamente manifestarvi. Riesco a vedervi”.

Le risate si trasformarono in un bisbiglio. Poi, da ognuna delle maschere uscì un fumo evanescente, che prese la forma di quattro figure umane, due adulti e due adolescenti.

“Davvero ci vede, padre?”, chiese il ragazzino. 

“Vi vedo e vi sento”, rispose Lapidario.

I quattro indossavano abiti Settecenteschi. Dovevano quindi essere morti in quell’epoca.

“Chi siete?”, domandò Lapidario. 

“Sono il conte Edoardo Maria Spina. E questi sono mia moglie Adelaide e i miei figli, Edoardo Maria III e Lucrezia Giuditta”. 

“Da quanto siete qui imprigionati?”.

“Non siamo imprigionati, diamine!”, tuonò il conte Edoardo. “Questa è la nostra dimora. Ci hanno provato in tanti, nei secoli, a portarcela via. Anzi, le hanno dato perfino fuoco, ma noi non ce ne siamo andati nemmeno sotto questa minaccia”, continuò orgoglioso.

“Ed è così che siamo morti”, aggiunse la ragazzina. 

La madre la fulminò con uno sguardo trasparente, ma efficace. 

“Padre, ma questo vivente non ha paura di noi?”, domandò il ragazzino.

“No, perché ci vede. Quindi non possiamo giocare sull’effetto sorpresa”.

Lapidario si accomodò sul divano di fronte al camino.

“Volete raccontarmi che cosa è successo in questa casa?”, li invitò con tono il più rassicurante possibile. 

“Qualcuno ha appiccato il fuoco. Qualcuno che ci odiava e che voleva impadronirsi della nostra proprietà”, cominciò il conte Edoardo. “Ci chiuse dentro e non abbiamo avuto nessuna possibilità di fuga”. 

“A un certo punto ci siamo trovati fuori dal nostro corpo, non sapevamo ancora che cosa ci stava succedendo. Abbiamo visto quelle maschere, quelle che indossavamo ogni anno per il Carnevale di Venezia. Non so perché, ma ci siamo rifugiati lì. E da lì abbiamo assistito a tutto quello che è venuto dopo. Abbiamo visto i nostri corpi, le persone che hanno spento l’incendio…e tutto il resto”, continuò la contessa.

“Ma non potevamo permettere che chi ci fece questo l’avesse vinta. Così, ci siamo rifugiati nelle maschere e, quando la casa venne recuperata e qualcuno ci venne a vivere, facemmo di tutto per scacciarlo”.

“Bastava poco!”, intervenne ridendo il ragazzino. “Ridevamo dalle maschere, abbiamo fatto in modo che non si staccassero dal muro. Abbiamo alimentato per secoli la storia della casa infestata. E nessuno, per centinaia e centinaia di anni, ci ha più messo piede. Ogni volta che qualcuno ci ha provato, noi siamo entrati in azione e lo abbiamo cacciato, in preda al terrore”, concluse divertito.

Gli spiriti tacquero tutti insieme. 

“E non vi siete stufati? Voglio dire: tutti quei secoli tra queste mura, oppure nascosti in quelle maschere, quando potreste andare in un luogo migliore”. 

“Quello che si trova oltre la porta di luce?”, domandò la ragazzina.

“Proprio quello. Non avete mai pensato di andare a vedere che cosa c’è al di là?”.

I quattro si guardarono interrogativi e incerti. Segno che ci avevano pensato spesso e, Lapidario intuì, cominciavano a sentirsi stanchi di quella prigionia autoimposta. 

“Ascoltate, per orgoglio o per vendetta, siete troppo attaccati a un luogo terreno. Alla fine, vi siete intrappolati da soli. Non ne vale la pena. In fondo, sono solo quattro mura”.

“Ma questa dimora appartiene alla nostra famiglia, non la cederemo mai a qualcun altro”.

Lapidario ci pensò. Poi gli venne un’idea.

“E se un vostro discendente promettesse di vigilare lui sulla vostra dimora? In questo modo la casa rimarrebbe di proprietà dei Conti Spina”. 

Il Conte Edoardo guardò la moglie, poi i figli. Capì che anche loro erano stanchi di quella situazione. Si consultarono in un turbinio di sussurri.

“E sia. Ma solo se questa casa rimarrà sempre ai Conti Spina, con clausola testamentaria, di generazione in generazione”. 

“E a patto che il testamento che vincola gli eredi delle future generazioni venga redatto tra queste mura, al nostro cospetto”, aggiunse la moglie.

Ora, Lapidario doveva convincere Manfredi. Tuttavia, il suo amico d’infanzia gli aveva confidato di credere alle storie di fantasmi. Non gli sarebbe stato difficile convincerlo.

****

Il giorno successivo, dopo aver passato una notte insonne a chiacchierare con il conte Edoardo e la sua chiassosa famiglia, elettrizzati dal poter interagire con un vivente, Lapidario attese l’arrivo di Manfredi. Al cospetto degli spiriti, gli raccontò tutto. Gli spiriti gli diedero man forte, contribuendo a rivelare la loro presenza prima spostando una maschera, poi diffondendo la loro risata per tutta la stanza. 

“Ma con il notaio come la metto?”, domandò lo Spina vivente.

“Che intricato! Che gli restituisca il suo vile denaro, gli racconti dell’incendio, oppure gli dia in permuta un’altra proprietà, sempre che non abbia scialacquato tutto il patrimonio di famiglia”, intervenne indispettito il Conte Edoardo.

Lapidario glielo suggerì. Manfredi ci pensò. Poi disse a Lapidario che poteva proporgli almeno due palazzine di altrettanto pregio non troppo lontane da lì. Poi, venne siglato il testamento che vincolava la proprietà della palazzina ai soli discendenti della famiglia dei conti Spina. 

“Bene. Accordo concluso. Ora, se non vi dispiace, prima di cominciare il nostro viaggio oltre la porta di luce, vorrei rimanere per qualche minuto solo con la mia famiglia”, disse il conte Edoardo. 

Lapidario e Manfredi lasciarono la casa.

“Allora è vero, che riesci a vedere gli spiriti dei morti?”.

“E chi lo sa?”, rispose Lapidario, abbozzando un sorriso. 

****

“Come è poi andata a finire la storia della maschere che ridono?”, domandò Alma a Lapidario. Erano passate alcune settimane e la ragazza era curiosa di sapere.

“Manfredi ha trovato il modo di commutare la vendita della casa in collina con due appartamenti collegati in un palazzo antico del centro storico. La casa con le maschere è diventata una residenza estiva della sua famiglia. E dopo tutto quello che ha speso per ristrutturarla, penso che ne farà buon uso”.

“E gli spiriti dei suoi antenati?”.

“Hanno mantenuto la promessa. Sono passati oltre. Ma prima hanno voluto lasciare a Manfredi e ai posteri un “regalino”, forse per ricordare loro il patto stipulato”.

“Cioè?”.

Lapidario fece una risatina. Alma si sorprese. Era raro vedere il suo capo davvero divertito.

“Le maschere. Sono rimaste sul camino. E non si staccano…neanche a morire!”.

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