E' rientrata nel fine settimana in Italia, dopo il viaggio in Perù con ProgettoMondo Mlal nell'ambito dell'edizione 2016 di Kamlalaf: nelle righe che seguono, Federica Nembi racconta gli ultimi giorni trascorsi nel Paese andino, riflettendo sul valore dell'esperienza vissuta.
Piacenza, 9 agosto 2016
di Federica Nembi
Il primo Paese con cui entriamo in contatto, arrivati sull'altopiano andino, è Sicuani. Qui, nei due giorni di permanenza, i componenti del Gies Canchis ci accompagnano a visitare alcune realtà che fanno parte della loro associazione. Così come per le cooperative di cafetaleros, anche in questo caso ci viene spiegato come la cooperativa sia una struttura solidale che si pone l'obiettivo di fortificare le capacità dei produttori, per far sì che il loro lavoro sia fonte di un'economia sostenibile.
Abbiamo l'onore di partecipare anche a una "Huatya", evento della comunità in cui le donne ci permettono di condividere con loro un momento importante della tradizione rurale, qual è il pranzo che si fa nei campi durante la stagione della raccolta.
Il giorno seguente partecipiamo alla "feria" che, in accordo con il Comune, l'organizzazione propone mensilmente per promuovere le produzioni delle associazioni aderenti al Gies. Questi momenti rappresentano un'occasione importante, non solo da un punto di vista economico di vendita, ma anche e soprattutto un momento di condivisione col tessuto sociale di appartenenza.
Dopo Sicuani, ci spostiamo ad Ayaviri dove conosciamo l'associazione Cepas Puno. E' un'associazione locale, sempre di matrice solidale, che ha l'obiettivo di accompagnare i gruppi di donne e le comunità con attività di sostegno quali il microcredito e la commercializzazione dei prodotti, curandone anche la qualità e la provenienza biologica.
Ultimamente, alcuni giovani del Cepas hanno dato vita a una nuova cooperativa, Tarpuy, con l'obiettivo di promuovere una cultura diversa rispetto a quella che propone la Tv peruviana. A questo proposito organizzano, con l'ausilio di dispositivi audiovideo, cineforum e attività culturali nelle scuole.
Gies Canchis e Cepas Puno sono tra le associazioni locali con cui collabora l'ong ProgettoMondo Mlal nel progetto biennale "Economia solidale", iniziativa di cooperazione per il potenziamento della rete di economia solidale e dell'equità di genere delle popolazioni rurali, cofinanziato dal Fondo Italo-Peruviano (Fip).
Come ultima tappa del nostro viaggio visitiamo l'isola di Amantani, sul lago Titicaca. Sotto un cielo con così tante stelle come non ne ho mai viste, arriva per me il momento di ringraziare chi ha reso possibile tutto questo: ProgettoMondo Mlal che mi ha permesso di visitare e vivere il Perù "dalla parte giusta"; i compañeros con cui ho condiviso questa esperienza, quelli partiti con me dall'Italia e quelli che ho conosciuto qui, sia italiani che peruviani, che hanno saputo giorno per giorno mostrarci luoghi incantevoli, quanto a volte ostici, come la Selva e l'altopiano andino; il Comune di Piacenza, lo Svep e il progetto "Kamlalaf in viaggio con Erodoto", con la speranza che possano continuare ad offrire ai giovani l'opportunità di vedere il mondo da un altro punto di vista.
Il Perù è un luogo meraviglioso, che in certe zone, lontano dalle grandi città, soprattutto là dove si è svolto il nostro viaggio, chiede alla sua gente un prezzo alto in termini di fatica e di adattabilità. Abbiamo conosciuto persone, soprattutto donne, che rispondono però quotidianamente a questa richiesta con grande umiltà, dignità e rispetto profondo per la Pachamama (Madre Terra). Solpayki Peru (grazie Perù)!
(Fonte: ufficio stampa Comune di Piacenza)
Al "diario" di Alberto Maserati, tra i partecipanti al progetto Kamlalaf, si aggiunge quello di Laura, giovane trevigiana che si è aggregata al gruppo attraverso l'iniziativa "Vieni e vedi" di Africa Mission.
Piacenza 24 agosto 2014 --
Il loro viaggio si è ormai concluso, ma nelle righe che seguono, due tra i ragazzi che hanno vissuto il viaggio in Uganda con Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo raccontano emozioni, sensazioni, scoperte.
Al "diario" di Alberto Maserati, tra i partecipanti al progetto Kamlalaf, si aggiunge quello di Laura, giovane trevigiana che si è aggregata al gruppo attraverso l'iniziativa "Vieni e vedi" di Africa Mission.
Giorno 4
Vi sbagliate! Non vi voglio narrare i fotogenici tramonti africani, fino ad ora nascosti dietro la spessa coltre di fumi che a Kampala trapassa le narici e fa strizzare gli occhi; o della natura sorprendente di questi luoghi, con animali bellissimi e piante meravigliose; o dei colori, dei sapori e degli odori che riempiono questa atmosfera; delle persone, dei bambini festosi e ovunque, dei costumi e delle danze tipiche o come si dice sempre: "la musica e il ritmo l'hanno nel sangue". Ci sono montagne di libri sull'argomento. Leggete quelli.
Vi racconto di un avvenimento che sarebbe potuto succedere anche a pochi metri da casa mia; ma è accaduto qui. Vi racconto di un mio sorriso di ipocrisia, regalato, trasformatosi in lacrime di commozione, per la reazione silenziosa di gioia umile e spontanea, slegato da ogni materialismo o fine egoistico, di chi l'ha ricevuto. Una sensazione di fronte alla quale si rimane disarmati per la sua forza travolgente. Mi è venuta in mente una poesia di Manzoni, "Regala ciò che non hai": "...regala un sorriso quando tu hai voglia di piangere, produci serenità dalla tempesta che hai dentro (...). Ti accorgerai che la gioia a poco a poco entrerà in te, invaderà il tuo essere, diventerà veramente tua nella misura in cui l'avrai donata agli altri."
Giorno 12
Benvenuti in Karamoja.
Ci vediamo catapultati in un altro mondo. Il traffico cittadino va diradandosi, attraversiamo foreste, distese di mais e canna da zucchero, paludi ricoperte di papiri; ed è così che, quasi senza accorgercene, arriviamo in Karamoja. La nostra auto sprofonda nella ferita che taglia un altipiano a perdita d'occhio, cosparso di alberi via via sempre più radi e da invisibili villaggi. Con il loro portamento inconfondibile, avvolti come spiriti nei loro coloratissimi mantelli, ecco che ci appaiono qua e la lungo la strada o vicino alle loro case i karimojong; una popolazione di pastori nomadi, guerrieri per necessità.
È la stagione delle piogge qui, e con questo mi spiego perché, la "terra dimenticata da Dio", mi appare una madre più generosa di come mi era stata descritta. Ma la natura si manifesta subito come è realmente: una matrigna avara alla quale l'uomo, come gli altri abitanti di questa regione, si è dovuto adattare, per sopravvivere, nonostante i suoi capricci. Come le acacie che qui hanno lunghe, durissime spine per difendersi dagli attacchi degli erbivori, anche gli uomini sembrano nascondersi sotto una dura corazza, pronti a proteggersi da qualsiasi sorta di attacco nemico. Un individualismo cieco sembra pervadere questo luogo. Chi ha più vacche è più importante. I bambini mangiano per ultimi. La legge del più forte, la legge della sopravvivenza naturale, regola questo ecosistema.
Ed ecco avanzare verso noi, con passo instabile e insicuro, un uomo, che si è appena bevuto i suoi soldi per sopravvivere ad un mondo nuovo. Non è un ubriacone comune, lui era un fiero guerriero karimojong. Sulla sua pelle si possono contare il numero di uomini da lui uccisi. Nei suoi occhi, velati dalla cataratta e inzuppati di grappa keniota, puoi vedere tutte le vacche un tempo da lui possedute. Il suo mondo è sparito, in un istante. È rimasto senza niente con la campagna del disarmo e la politica del governo per rendere sedentaria e quindi più controllabile questa popolazione. L'alcool, venduto qui in squallide bustine di plastica, è ciò che gli resta. Eccolo fare lo scemo con le nuove turiste bianche.
Ho capito quanto sia, molto spesso, difficile e delicato il lavoro delle Ong. Ho capito quanto sia impossibile aiutare tutti. Ecco perché quando si chiede "la situazione è migliorata da quando C&D e Africa Mission operano in questa regione?" non si può avere una risposta certa, dipende dal punto di vista. Sicuramente è cambiata e come in tutti i cambiamenti, vi sono pro e i contro. I bambini ora, almeno la maggior parte, hanno di che sfamarsi, la possibilità di avere le cure mediche di base, la possibilità di un'istruzione elementare. E tutto ciò è grandioso.
Alberto Maserati
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Questo è il racconto del mio viaggio... il mio primo viaggio in Africa, un viaggio che ho sognato e desiderato da molti anni e che finalmente ha preso forma, non so perchè sono riuscita a partire proprio in questo momento della mia vita, forse lo scoprirò con il trascorrere del tempo, o forse lo sto già capendo pian piano. Il viaggio in realtà è cominciato già in Italia quando ho conosciuto Africa Mission e le persone che ne fanno parte, sono entrata anch'io a far parte di questo gruppo, anzi di questa grande famiglia che ha come casa tutta l'Italia e che mi ha dato l'opportunità di fare questa bellissima esperienza!
Non riesco a riordinare i pensieri e le emozioni che ho provato in questo luogo, perchè qui tutto è pieno...pieno di persone, di colori, di voci e suoni, di odori, di macchine e animali, di polvere e oggetti, di sguardi e strette di mano. Posso descrivere la prima sensazione che ho sentito durante il nostro primo incontro con questo mondo che come un uragano mi ha travolto: mi sono ritrovata catapultata in mezzo a una confusione fatta di vita. Questa sensazione mi accompagna ogni giorno, nonostante cambino i paesaggi, le persone, le abitudini... io rimango travolta da tutto ciò che accade attorno a me, tutto ciò che incontro mi colpisce, è come una sorta di onda d'urto che mi viene addosso.
Potrei descrivere concretamente tutto ciò che abbiamo fatto: le attività con i bambini, i giochi, i luoghi visitati in cui la vita viene vissuta, il prendersi cura di chi ne ha bisogno, l'aiutare le persone che ogni giorno si mettono al servizio dell'altro; ma il mio viaggio è fatto principalmente di emozioni, di sentimenti che nascono da dentro, di pensieri che mi riempiono la mente e che non riesco a far stare in silenzio... è fatto di un qualcosa che è difficile esprimere perchè è un qualcosa che si può solo vivere.
Il mio viaggio è fatto anche di persone che come me hanno scelto di fare questa esperienza, e che non hanno scelto di ritrovarsi nello stesso posto nel medesimo momento, è fatto di un gruppo di ragazzi che, prima ancora di essere dei compagni di viaggio, sono degli amici... amici che guardano questo mondo sconosciuto con gli occhi della curiosità, priva di pregiudizi e paure, piena di stupore e incredulità. Sono contenta di poter condividere con loro questo mio pezzo di vita, sono contenta che ognuno di loro abbia incrociato il mio cammino... sono amici che resteranno per sempre legati a questo mio sogno realizzato, che lo rendono ogni giorno pieno di affetto.
Importante per me è anche la presenza di Paolo che ci sta dando la possibilità di vedere e conoscere ogni piccola realtà, di vedere quanto lavoro e aiuto c'è dietro ai tanti progetti che C&D ha, ci da la possibilità di metterci in gioco completamente, ci da la sicurezza nel poterci esprimere a nostro modo senza aver troppo timore di sbagliare, con quel suo modo semplice e umano di stare in mezzo alla gente e di renderci parte della vita che si costruisce qui ogni giorno.
Bellissimo è stato vivere nella casa di Piergiorgio e Cristina, ci hanno accolto come una mamma e un papà. Ci siamo sentiti una vera famiglia, loro hanno saputo darci l'affetto, il supporto e la sicurezza necessari per affrontare al meglio questa avventura a noi completamente sconosciuta. Ritornare nella loro casa dopo le nostre attività era proprio come ritornare a casa dopo una giornata di lavoro...loro erano sempre li ad aspettarci e noi questo lo sapevamo!
Il mio viaggio non è ancora terminato...so che ci saranno ancora tante persone da incontrare, da conoscere, molti sguardi che incroceranno il mio, molti sorrisi che nasceranno e molte emozioni che riempiranno cuore e mente...
Laura
Dove la solidarietà supplisce alla carenza di fondi.
Prosegue il viaggio in Senegal dei cinque piacentini che, nell'ambito del progetto Kamlalaf, con l'associazione Diaspora Yoff stanno visitando il Paese africano. Segue il resoconto di Daniela Patelli, Noemi D'Agostino, Lorenzo Magnani, Margherita Rettagliata e Letizia Bonvini, accompagnati nel viaggio da Diagne Tagoulé e Logane Samba.
Piacenza, 17 agosto 2014 - "Il forte senso di coesione sociale che abbiamo avvertito durante i primi giorni del soggiorno a Yoff si dimostra anche più concreto di come immaginavamo.
La visita all'ospedale è stata illuminante in tal senso: all'interno della piccola struttura parte dei medici e del personale sanitario lavora volontariamente e, poiché i mezzi dello stato sono limitati, sono il Comune e il Consiglio dei saggi a contribuire alle spese. Su 152 persone che lavorano nell'ospedale, 70 ricevono un contributo dall'Amministrazione comunale. Due anni fa è stato aperto il reparto di Chirurgia e molti sforzi ed energie vengono spesi per rendere sempre più efficiente il padiglione della Maternità. Una media di 350 donne, proveniente anche da altre regioni e da Dakar, viene assistita ogni mese durante il parto, con una quota di circa 120 cesarei.
L'ospedale di Yoff riceve mensilmente materiale sanitario, parte del quale viene distribuito ad una rete di quattro ospedali più piccoli. Grazie ad una raccolta fondi il gruppo di Diaspora Yoff è riuscito a dare un contributo che, per quanto sia modesto, viene accolto con grande riconoscenza: laddove lo Stato non ha mezzi per fronteggiare tutte le necessità, l'impegno della comunità e l'aiuto del singolo diventano fondamentali. Spesso chi non ha i mezzi per curarsi viene aiutato dalla famiglia e dagli amici.
Dunque si agisce, e lo si fa con grande energia, perché i problemi sono tanti e la popolazione è in crescita costante. Noi parliamo con queste persone e pensiamo alla nostra realtà, dove i mezzi sono forse più consistenti rispetto a quelli in Paesi in via di sviluppo, eppure assistiamo alla chiusura delle guardie mediche nei piccoli centri e a tagli sulle spese più concrete. Ci chiediamo quindi se una gestione locale, più diretta, possa in determinati casi essere grande efficienza e perché no, un modello esemplare".
(Fonte Provincia di Piacenza)
Anche se il gruppo è ormai sulla strada di casa, durante il viaggio in Uganda con Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo i ragazzi del progetto Kamlalaf hanno scritto con intensità le loro riflessioni. Quello che segue è il racconto di Ilaria Platè.
Piacenza 8 agosto 2014 --
Sono trascorsi circa dieci giorni dal nostro arrivo in Uganda, ma sembrano molti di più: tanti sono stati gli incontri, le nuove amicizie, i suoni, le musiche, i colori, gli odori, i momenti e gli sguardi che rimarranno indelebili nella memoria, che mi risulta difficile avere la giusta percezione del tempo che passa.
Soprattutto qui a Moroto, dove la vita quotidiana delle persone scorre lenta, come le alte figure dei Karimojong che camminano solenni, avvolti in stoffe colorate, reggendo un lungo bastone o trasportando fagotti, fascine di legna, taniche d'acqua sulla testa.
Una cosa che sto imparando qui è proprio un modo diverso di vivere il tempo: liberata dai ritmi incalzanti delle nostre città, imparo ad assaporare ogni momento. Anche quando non c'è nulla da fare, da produrre, quando occorre semplicemente aspettare, quando si sta insieme la sera senza televisione o computer, chiacchierando, cantando, giocando, o si sta in silenzio ad ammirare la bellezza del tramonto sulla savana o il cielo trapunto di stelle, scoprendomi grata di essere qui e piena di domande sulla vita.
Ho scoperto che vale la pena "perdere" del tempo così, che questi momenti sono preziosi, così come le persone che sono qui con me: non le ho scelte io, eppure mi sembrano un regalo, per l'amicizia che sta nascendo, e per la compagnia che ci facciamo. Penso anche a chi ci accompagna, e a chi ci ha accolto da subito come parte di una famiglia: Giorgio e Cristina, per me testimoni di una fede autentica e vissuta con semplicità.
La semplicità: un'altra cosa che l'Africa mi sta insegnando. Mi vengono in mente le giornate dai Missionaries of the Poor, il modo in cui essi ogni giorno si mettono a servizio dei bimbi e degli anziani che vivono nella loro struttura, facendo ciò che bisogna fare, con una gioia che li fa canticchiare durante il lavoro; gli stessi bambini, orfani o abbandonati dalle famiglie perché disabili e portatori di handicap: basta fare loro un sorriso, e subito ti permettono di raggiungerli, stabiliscono un rapporto con te. Così come gli alunni della Great Valley School, nello slum di Makindye, a Kampala: basta uno sguardo o un piccolo gesto per avvicinarli: ti vengono incontro, vogliono sapere di te, ti prendono per mano o ti abbracciano, dicono "I wanna be your friend". Certi incontri, certi sguardi, sono sempre con me: un ragazzino di quinta elementare, Musa, conosciuto alla scuola, che mi scrive una mail dall'internet point dello slum; Matilda, bimba disabile alla quale mi sono affezionata durante i giorni trascorsi con i Missionaries of the Poor, che riesce ad articolare appena qualche suono, ma sono i suoi occhi a parlare e i suoi sorrisi; i ragazzi del centro giovanile "Don Vittorione" di Moroto, tra cui Olivia, che mi ha donato un anello, come segno della sua amicizia, lei che di "cose" ne possiede così poche..., o Lazaro e i suoi amici che si divertono ad insegnarmi a parlare un po' in Karimojong; le Charity Sisters, che scelgono di vivere in assoluta povertà, accudendo bimbi orfani che hanno da pochi giorni di vita a due anni; e tanti altri che mi testimoniano la gioia che viene dallo spendere la propria vita così, insieme, mettendosi a servizio del prossimo.
E' un riscoprire la bellezza dell'incontro e del rapporto con chi è "altro" da te, il valore di ciascuno, lo stare insieme con semplicità e curiosità: la ricchezza più grande di questo viaggio sta tutta qui.
Negli ultimi giorni, è stato per me molto emozionante partecipare al coro dei giovani durante la S. Messa: per la prima volta non mi sono sentita un'intrusa, una Muzungu (bianca, straniera) di passaggio che si introduce per un po' in un mondo diverso, ma mi sono anche sentita a casa, accolta dai ragazzi, che, dapprima divertiti dal mio voler imparare a cantare in Karimojong, si sono prestati ad insegnarmi un po' di pronuncia e la melodia delle loro canzoni, che ora non riesco più a togliermi dalla testa. E' stato un momento di comunione bellissimo, e mi è stato finalmente chiaro che, al di là di tutto, siamo davvero tutti uguali, pur nella diversità di costumi, tradizioni, condizioni...e colore della pelle.
Ilaria Platè
(Fonte Comune di Piacenza)
Piacenza, 4 settembre 2013 -
La testimonianza di Sara Manstretta, che riflette sul significato del suo viaggio in Burundi presso il Centre Jeunes Kamenge della capitale Bujumbura, nell' ambito del progetto Kamlalaf -
È passato quasi un mese dal mio ritorno in terra italiana dopo le 3 settimane di volontariato in Burundi. Già parecchie persone mi hanno fatto i complimenti per aver deciso di fare quest'esperienza. Hanno lodato il mio "coraggio". Io questa cosa del coraggio non la capisco. Prima di tutto il coraggio presuppone sacrificio, e il sacrificio evoca dolore. In quelle tre settimane, il dolore più forte che ho provato è stato quello alla pancia per il troppo ridere. Il sacrificio più faticoso è stato alzarmi alle 6.30 ogni mattina, ma d'altra parte mio padre da una vita si sveglia alle 6 per andare a lavorare, mia sorella per andare all'università. Nessuno, penso, ha mai detto loro "che coraggio". Ho sostituito la mia colazione di crostini marmellata e cappuccino con un bicchiere di the caldo divino e una pagnotta di pane fresca: davvero un peccato.
Sono andata nei quartieri poveri di Bujumbura a fare i mattoni per 15 mattinate: i miei compagni di lavoro continuavano a dirmi di fermarmi perché ero sicuramente stanca (e non c'era modo di far loro capire che no, dopo 10 minuti di lavoro non ero stanca) e dovevo lottare per trasportare i secchi d'acqua per più di due giri consecutivi. I muratori italiani mi avrebbero giudicata una lavoratrice da poco, troppo impegnata a ballare "Ai se eu te pego" con i bambini per fare il suo dovere.
A pranzo mi sono ridotta a mangiare riso e fagioli per tre settimane. Riso e fagioli a cui i miei amici aggiungevano avocado, banane (ma voi non avete idea di cosa sia il riso con le banane), cipolle, e a cui il Centro aggiungeva a giorni alterni uova, carne, patate, carote... la gente in pausa pranzo se li sogna dei piatti del genere.
Sono capitata in mezzo a ragazzi che non parlavano la mia lingua. Eppure cercavano in tutti i modi di farsi capire, di comunicare, di spiegarmi, di chiedermi: e ce la facevano. Sono più volte andata in Francia e non ho trovato persone che avessero la stessa volontà di farsi capire e di capirmi (con buona pace del mio amico francese anch'egli volontario in Burundi). La sera cenavo da re, le tagliatelle fresche avocado e panna del cuoco Patrice rimarranno sempre nel mio cuore.
Le serate che passavo con i ragazzi del centro non avevano nulla da invidiare alle migliori serate che passo con gli amici italiani. Anzi, non c'era nemmeno l'ansia del "Cosa facciamo? Dove andiamo? Chi chiamiamo? Cosa beviamo?": bastava stare insieme, il resto era superfluo. Il sabato sera siamo andati a ballare, i ragazzi di colore hanno il ritmo nel sangue, ti fanno girare come una trottola e conducono anche la ragazza più scoordinata facendola sentire una regina.
Qual è stato dunque il mio coraggio? Decidere di partire? Ma per favore! In questo nostro mondo pieno di cose, pieno di esperienze, pieno di possibilità, pieno di occasioni di passare le vacanze nei più svariati modi, il volontariato a detta di molti non è diventato altro che uno dei possibili riempimenti. Nasconde forse una gran voglia di mettersi in gioco e di dimostrare agli altri che ce la si può fare. Ce la si può fare a fare cosa? A estraniarsi dal mondo per tre settimane certi che tanto ci si torna? Un ragazzo del centro salutandoci ha detto "Voi qua vi trovate sempre molto bene. Ci promettete di tornare, ma poi vi perdete nelle vostre vite e vi dimenticate in fretta. Le nostre vite, invece, sono queste."
Andare in Burundi per mettere nel curriculum "volontariato" è come andare una volta a fare una visita al canile, porgere un pezzo di pane ad un randagio per poi attaccare in casa la targa "amico degli animali" comprata il giorno prima al mercato. Il paragone ai cani non è casuale: il rischio è di trattare le persone come bestie da zoo.
Non so il perché di tanta foga e tanto rancore in questa pagina. Non so neanche verso chi. Forse, prima di tutto, verso me stessa, per la grande, enorme paura di diventare "un'amica degli animali". Forse verso quelle persone che smorzano le mie intenzioni di ritornare in Burundi con "è solo l'entusiasmo momentaneo". Forse verso quelle persone che pensano che vedere come si sta dall'altra parte del mondo sia come vivere dall'altra parte del mondo. Forse verso quelle persone che non concepiscono nemmeno l'idea di rinunciare a minime, ma davvero minime, comodità, per tre settimane della loro vita: perché a maggior ragione non potrebbero fare a meno di ancor più piccole comodità, inutili e superflue, nella loro ricca e agiata quotidianità piena di sprechi.
Coraggioso deriva dal latino "coraticum" e significa avere cuore. Solo in questo senso sono coraggiosa. Ho un cuore, ma è rimasto in Burundi.
Sara Manstretta
(Fonte: ufficio stampa Comune di Piacenza)
Piacenza, 21 agosto 2013 -
Nel 2009 ho partecipato alla prima edizione del progetto "Kamlalaf", destinazione Brasile, con ProgettoMondo Mlal: un viaggio significativo e importante, tanto che il 21 luglio scorso sono partita di nuovo, sempre con il Mlal, sempre in Sud America, questa volta alla scoperta della Bolivia. Ci ritroviamo in undici, tra ragazzi di Piacenza, Verona e Milano, inclusi il "profe" Romeo e la rappresentante del Mal di Piacenza Danila Pancotti. Vorrei prima di tutto ringraziare per la perfetta organizzazione i volontari Mlal locali e Vanni De Michele, ex casco bianco residente a La Paz, che con grande pazienza ed entusiasmo ci ha accompagnati attraverso il territorio boliviano.
Da un punto di vista prettamente turistico, la Bolivia possiede spettacoli della natura unici. Gli altipiani andini, tra orizzonti sconfinati e paesaggi lunari, sono davvero suggestivi: in un percorso tra i 2000 e i 4000 mt di altezza ci siamo lasciati affascinare da questa natura "prepotente" e selvaggia, fatta di vento gelido, sole che brucia la pelle, immensi cieli stellati e silenzio assoluto. Non a caso il Paese è definito "il Tibet dell'America Latina". Il Salar de Uyuni, la più grande distesa di sale al mondo, si estende per oltre 10mila mq a 3600 mt sul livello del mare, come un deserto immacolato. Il Titicaca, posto al confine tra Perù e Bolivia a oltre 3800 mt, è il lago navigabile più alto al mondo: il blu delle acque si scontra con un cielo reso ancora più blu dall'aria rarefatta, mentre in lontananza si stagliano le innevate vette peruviane. La capitale La Paz è adagiata in una conca a 3650 mt, dominata dalla Cordillera Real e dagli oltre 6000 mt di altezza della cima Illimani. Questi paesaggi mozzafiato rimandano costantemente allo stretto intreccio che esiste tra la Terra, il territorio, e la cultura indigena presente in tutto il Paese: ancora oggi, gran parte degli abitanti di Bolivia appartengono a etnie Quechua o Aymara. Antichissime tradizioni sopravvivono perciò un po' ovunque nel Paese, specialmente nelle aree rurali, creando una commistione suggestiva tra miti, leggende Inca e riti ancestrali riguardanti la Madre terra (o Pachamama).
La peculiarità del nostro viaggio è rappresentata dal soggiorno presso le varie comunità contadine ed indigene che hanno partecipato al progetto "Bienvenidos!", mirato a favorire lo sviluppo del tessuto sociale ed economico del luogo attraverso proposte di turismo solidale comunitario. Abbiamo tutti potuto apprezzare l'ottimo lavoro effettuato da ProgettoMondo Mlal, in collaborazione con il partner nazionale Red Tusoco: la calorosa accoglienza che queste comunità ci hanno riservato, nell'area subtropicale come lungo la cordillera andina, ci ha completamente conquistati.
Il primo incontro è con il "mitico" Don Dalmiro, della comunità di La Chonta nel dipartimento di Santa Cruz, che ci ha guidati con il suo machete tra gli stretti sentieri del Parco Naturale Amboró, area amazzonica che può vantare una straordinaria biodiversità. Don Dalmiro, con il suo sorriso timido e i suoi modi sinceri, prosegue inarrestabile e tenace nel ricercare un dialogo tra le comunità della zona e le istituzioni, senza arrendersi di fronte al disinteresse mostrato dalle autorità locali. Salendo man mano in quota, siamo arrivati a Livichuco (dipartimento di Oruro, municipio di Challapata), dove l'associazione Apsu (Artesania Para Seguir Unidos) gestisce con successo l'attività turistica della comunità, estremamente a suo agio nell'accogliere i visitatori. Sono le persone a fare la differenza durante il nostro breve soggiorno e a farci sentire "a casa": Doña Maria ha cucinato per noi in modo eccellente le specialità locali e persino i bambini, all'inizio timidi e diffidenti, dopo poco tempo si sono mescolati a noi, raccontandoci fieri la loro quotidianità. Don Andrés e Don Tiburcio, autorità indigene del luogo, ci hanno fatto conoscere i "segreti" del loro piccolo mondo: portandoci alla scoperta dell'antico sentiero coloniale che si snodava fino a Sucre, mostrandoci il processo di lavorazione della lana di alpaca, rendendoci partecipi al rituale andino della Challa (una cerimonia di reciprocità con la Pachamama) e alla lettura delle foglie di coca.
Tra i due deserti di sale, quello di Uyuni e quello di Coipasa, siamo stati rapiti dalla magia che circonda la comunità di Alcaya. Doña Inés ci ha accompagnati in una mistica passeggiata nel sito archeologico locale, dove si trovano i corpi mummificati e i resti della cittadella di pietra della civiltà Chullpa, la più antica dell'area andina. L'interesse storico-archeologico passa però in secondo piano, in confronto all'intensa aura di sacralità che pervade la zona: è infatti la comunità stessa che si occupa di prendersi cura dell'area dove "riposano" gli abuelitos (letteralmente "i nonnini"), con l'amore e la devozione che si riserva ai propri avi scomparsi, seppur da centinaia di anni. Doña Betty ci ha congedati da Alcaya ringraziandoci per averle fatto compagnia e animato l'esiguo villaggio durante il nostro soggiorno: sono purtroppo rimasti in pochi a custodire la memoria degli abuelitos; anche qui come nella nostra realtà i giovani hanno lasciato il campo per studiare nelle città. A questo proposito, i ragazzi incontrati al Parco Nazionale di Toro Toro, nel dipartimento di Potosi, rappresentano un piacevole esempio "controcorrente": forti dello stretto legame che possiedono con il loro territorio d'origine e della conoscenza dello stesso, hanno deciso di restare creando un'associazione di guide locali. Sicuramente una scelta coraggiosa ed intelligente, oltre ad uno spunto interessante, magari da trasportare nella realtà italiana, per ridare un ruolo centrale alla cura del nostro territorio e alla conservazione dell'ambiente che lo circonda.
Quelle che ho citato sono solo alcune delle piccole-grandi storie incrociate durante il nostro tragitto: abbiamo infatti incontrato ovunque sogni e speranze, di chi con poco o nulla ha realizzato un progetto diventato, col tempo, importante. Direi che il nostro è stato un viaggio vissuto con gli occhi e con il cuore e ciò che rimane sono prima di tutto le persone che abbiamo conosciuto durante il nostro percorso, il loro entusiasmo e i loro racconti. Grazie ad un confronto reciproco tra culture differenti, abbiamo cercato di essere davvero turisti "responsabili", arricchendoci dell'esperienza del popolo boliviano, abitante un territorio aspro e difficile, ma generoso e coinvolgente come l'allegria dei suoi i colori.
Elena Zagnoni
(Fonte: ufficio stampa Comune di Piacenza)
Piacenza, 15 agosto 2013 - -
Kamlalaf, "Ecco la nostra Bolivia"
Bolivia...volti, colori, sapori e un turbinio di immagini che si affollano nella mente stanca ma viva del viaggiatore di ritorno. A due giorni dal rientro sul suolo caldo e rassicurante di casa, provo a tessere le fila del nostro percorso, iniziato ad aprile tra i colli di Denavolo di Travo, guidati nell'approccio a questa esperienza da Gianluca Sebastiani. Questo fondamentale cammino di formazione ci ha permesso di viaggiare nelle vesti di turisti responsabili, in piena sinergia con i processi di sostenibilità ambientale e di scambio culturale di cui si sono fatte promotrici e sostenitrici le varie Ong aderenti al progetto Kamlalaf del Comune di Piacenza. Nello specifico, per l'organizzazione del nostro itinerario sul suolo boliviano e per l'appassionato sostegno dimostrato, il ringraziamento va a ProgettoMondoMlal e a tutti i volontari (in primis a Vanni De Micheli, la nostra guida in loco, nonché a Danila Pancotti, che ci ha accompagnati).
Ovviamente potrei dilungarmi in descrizioni di luoghi e paesaggi mozzafiato, ma ciò su cui oggi voglio focalizzare la mia attenzione, in piena sintonia con lo scambio culturale che abbiamo vissuto, sono le persone. Tanti sono stati gli incontri e questa predisposizione mentale ci ha permesso di toccare con mano la ricchezza umana e la varietà culturale di cui sono portatrici le varie comunità con cui siamo venuti a contatto.
All'arrivo in Bolivia, l'impatto con il territorio è stato forte. Spossati dal viaggio e sferzati dalle raffiche gelide di Surraco (ciclone sudamericano) ci siamo sistemati nei pressi di Buenavista presso la comunità de La Chonta, ai margini della foresta tropicale. Qui siamo rimasti tutti colpiti dalla dedizione e dalla passione con cui Don Dalmiro e famiglia portano avanti il progetto di sensibilizzazione turistica e di preservazione dell'area protetta del parco Amboro. Ammirevoli gli sforzi con cui il responsabile comunitario resiste alle difficoltà che quotidianamente si trova ad affrontare, dovute al disinteresse dell'amministrazione locale e ad un'effettiva problematica di reclutamento volontari e raccolta fondi necessari. Promettendo di farci carico noi per primi di quest'opera di sensibilizzazione, perlomeno attraverso i nostri racconti, abbiamo a malincuore lasciato Don Dalmiro alle sue battaglie dirigendoci verso l'altopiano.
A Livichuco, nel dipartimento di Oruro, abbiamo goduto dell'ospitalità di Don Andres e di Don Tiburtio, responsabili locali dell'attività turistica comunitaria. Oltre alla dura bellezza dell'ambiente circostante, spettacolare nella sua semplicità, ciò che più mi ha colpito di questo contatto con la sperduta comunità andina (sviluppatasi lungo il cammino coloniale che attraversa le montagne giungendo sino a Cuzco), è stato sicuramente il sorriso che ha incorniciato il volto dei comunitari durante la nostra permanenza. Sorriso perenne, di quelli che non dimentichi, sia nell'istruirci sul metodo di lavorazione e colorazione della lana di Alpaca quale primaria fonte di sostentamento, sia nell'accompagnarci lungo i percorsi impervi, resi aridi dall'altitudine (4500m. sul livello del mare).
Stesso sorriso, malinconico e forse ancor più indimenticabile, che abbiamo poi ritrovato nell'incontro con Dona Betti a cui ci siamo sinceramente affezionati durante i tre giorni di soggiorno presso la struttura comunitaria di Alcaya, tanto effimera per l'effettivo numero di abitanti quanto infinitamente ricca di tradizioni, reperti storici e archeologici e straripante di spiritualità dal sapore antico e di leggende da narrare ai visitatori. Il tutto testimoniato dalla misteriosa presenza di scheletri umani perfettamente conservati all' interno di cunicoli nella roccia, di cui non si conosce la reale provenienza storica, ma che la suggestione insita nel luogo induce a guardare con rispetto e sacralità.
Infine, come stimolo ad una suggestione ancora più forte, le parole di Dona Betti, tanto indaffarata e laboriosa nei giorni dell'accoglienza quanto commossa e commovente nel giorno dell'addio. Ciò come dimostrazione dell'indiscussa e ansiosa felicità nel renderci partecipi della cultura, della spiritualità e delle tradizioni locali, quasi a trasformare anche noi in poveri ma vivi portatori di quanto, col tempo, è sempre più a rischio di estinzione nel mondo della globalizzazione: la valorizzazione del patrimonio culturale autoctono rurale e non.
Un processo deleterio e passibile di un impoverimento globale in atto sia nei Paesi del "primo mondo" sia, ancor più, con riguardo ai Paesi del "terzo mondo" come la Bolivia. Un processo che noi, sensibilizzati da questa a dir poco pregnante esperienza, nel nostro piccolo ci siamo impegnati ad evitare con ogni mezzo.
Giorgio Vincenti
(Dal Comune di Piacenza)
Piacenza, 14 agosto 2013 --
Dall'Uganda, nell'ambito del progetto Kamlalaf, scrivono la loro testimonianza Sara Marino e Michela Merli, che insieme alle piacentine Margherita Moroni e Silvia Negri (in viaggio con il progetto "Vieni e vedi" di Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo) stanno vivendo un'esperienza di viaggio partita dalla capitale Kampala.
"Oggi è il sesto giorno che trascorriamo a Kampala. Il tempo scorre velocemente ed ogni giorno che passa ci rendiamo sempre più conto di quanto la vita qui sia difficile e faticosa.
L'aria africana ti travolge, sia mentalmente che fisicamente. Sì, perchè l'aria africana è forte, è umanità. Un'umanità che all'inizio può intimorirti e spaventarti ma che appena la rivedi specchiata negli occhi grandi e lucidi e nei sorrisi dai denti bianchissimi dei bambini di strada, ti rende felice. E l'estraneità che prima sentivi scompare. Questa sensazione ci è del tutto nuova e per capirla non basta leggere queste righe ma bisogna viverla in prima persona.
Questa umanità l'abbiamo ritrovata in Bosco, preside della scuola Great Valley, che dopo essere fuggito nel 1994 dal genocidio rwandese ed essere stato un bambino di strada, a sua volta ha avuto la fortuna di studiare grazie a padre Valente e ha deciso che nella sua vita avrebbe aiutato i bambini delle slums (le baraccopoli alla periferia della città). E l'abbiamo rivista nei Missionari dei Poveri, che tutti i giorni aiutano con speranza e umiltà gli ultimi degli ultimi, i bambini disabili e orfani delle baraccopoli.
Nonostante le barriere linguistiche e culturali sentiamo questa umanità intimamente vicina. "
Sara Marino, Michela Merli, Margherita Moroni, Silvia Negri
(fonte comune di piacenza)
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