Sabato 10 giugno, presso la Sala Espositiva della Galleria Incontro a Casalgrande (RE) la presentazione del libro di Daniela Ori illustrato con 20 dipinti della pittrice sassolese che interpreta le liriche e le diverse sfaccettature dell'animo femminile.
Di Manuela Fiorini
Dall'incontro di due donne, una poetessa, l'altra pittrice, nasce "Il giorno che non c'è" (Edizioni Artestampa), la raccolta di liriche di Daniela Ori illustrato da venti dipinti dell'artista sassolese Beatrice Riva. Una piccola e preziosa opera d'arte, che sarà presentato oggi, sabato 10 giugno, alle 17.30, presso la Sala Espositiva della Galleria Incontro, in Piazza Ruffilli 2, a Casalgrande di Reggio Emilia, nell'ambito dell'evento Tra pittura e poesia. Il volume si divide in sette parti, come le note di un pentagramma: Amore, Magia, Donna, Ricordi, Figlia, Incanto, Ironia. Ogni sezione conta sette poesie più la lirica conclusiva, che dà il titolo all'opera. Ogni gruppo è introdotto da un commento dello scrittore Fabio Clerici e da un dipinto di Beatrice Riva, che ha curato anche la copertina.
L'abbiamo intervistata.
"Quando hai iniziato a dipingere?
Disegno e coloro da quando ero piccolissima, ma ho adottato lo stile e la tecnica attuali dal 2010, frequentando per qualche anno corsi di pittura".
A che cosa ti ispiri per realizzare i tuoi dipinti?
"Ho sempre prediletto la figura umana, in particolar modo quella femminile, ma da quando ho iniziato a dipingere ad olio mi sono interessata anche alla figura maschile, in quanto essendo anatomicamente più possente, si presta molto bene per rendere i volumi e i contrasti di luce e ombra. I miei soggetti sono protagonisti di scene prevalentemente simboliche, allo scopo di rappresentare i molteplici aspetti dell'animo umano, anche quelli più nascosti. Si evidenzia l'imperfezione dell'uomo, il suo essere incompleto ma, a tempo spesso, traspare la speranza di ricongiungersi alla sua vera essenza. Negli ultimi tempi ho esteso la mia ricerca anche a soggetti animali, cercando di dar loro una potenza sufficiente a suscitare comunque delle emozioni che giungano in profondità nell'animo di chi osserva".
Quali tecniche utilizzi? Ce n'è una che preferisci?
"La mia tecnica prediletta consiste nell'uso dei colori a olio, che mi consentono di ottenere i migliori risultati nelle sfumature e nella resa della plasticità del corpo umano. A questi talvolta abbino acrilici e pastelli, per evidenziare i tratti o per aggiungere quegli elementi di "disturbo" che conferiscono alla figura il quel risultato "imperfetto" che desidero ottenere. Per un periodo ho utilizzato anche la pellicola trasparente, fissata al supporto mediante colla vinilica e fuoco e poi colorata, integrandola al dipinto esistente per coprire parzialmente la scena con un effetto materico. Il supporto è prevalentemente la tela, ma uso anche tavole in legno e carta".
Come hai scelto i dipinti per rappresentare le varie sezioni in cui è suddiviso "Il giorno che non c'è" di Daniela Ori?
"Li abbiamo scelti insieme io e l'autrice, ed è stato semplice e naturale. I dipinti esistevano già, non sono quindi stati realizzati appositamente, ma hanno potuto adattarsi perfettamente ai temi trattati dalle poesie grazie alla forte sintonia che ci unisce".
I tuoi quadri spiccano per l'uso del colore e per l'intensità degli sguardi delle protagoniste femminili. Come definiresti la tua arte?
"Potrei definirla, come qualcun altro ha già fatto, "scomoda", nel senso che proprio grazie alla forza, all'intensità degli sguardi, ma anche delle figure in generale, la mia arte invita a porsi domande, guardarsi dentro, cercare una libertà lontana dai condizionamenti e le convenzioni culturali che ci danno una sicurezza senz'altro illusoria, ma che fatichiamo a voler abbandonare. Le emozioni suscitate dai miei dipinti potrebbero quindi non essere sempre positive, ma una volta comprese è possibile passare oltre e proseguire il percorso verso una vita più autentica".
Le liriche de "Il giorno che non c'è" saranno interpretate da Daniela Ori, Daniele Biagioni e Paola Morandi. L'evento, a ingresso libero, è promosso dal Comune di Casalgrande in collaborazione con l'Associazione I Semi Neri (www.semineri.it).
Questa è la storia di Paolo Palumbo, ragazzi affetto dalla SLA; e della sua battaglia al fianco chi soffre per la stessa malattia o presenta problemi di deglutizione. Lui e lo chef Pomata insieme per il libro di cucina “Sapori a colori”
Di Chiara Marando -
Domenica 04 Giugno 2017 -
Questa è una storia bella, una di quelle che fanno sorridere di speranza. E’ la storia di Paolo Palumbo e della sua lotta contro una malattia che gli ha cambiato la vita, ma soprattutto del suo saper insegnare qualcosa a tutti noi: la forza di credere nelle proprie idee.
La sua è una forma aggressiva di sclerosi laterale amiotrofica, ma Paolo, dall’alto dei suoi soli 19 anni, ha dimostrato a tutti che con la passione e la forza di volontà si può arrivare oltre le aspettative. Lui lo ha fatto ed ha trovato il modo di aiutare gli altri. Anche il Presidente della Repubblica ha voluto partecipare alla sua iniziativa con una risposta di incoraggiamento.
"Carissimo Paolo- ha scritto l'Ufficio particolare del capo dello Stato - il presidente della Repubblica ha ricevuto la tua toccante lettera e mi incarica di ringraziarti per averlo reso partecipe della tua vita, purtroppo molto cambiata da quando devi combattere contro questa grave malattia - continua - Il progetto del libro Sapori a colori inoltre - immaginato da te per alleviare le sofferenze dei pazienti con problemi di deglutizione, disfagia o costretti ad una alimentazione artificiale - esprime già nel titolo le tue intenzioni ed il presidente Mattarella sarà felice di poterne ricevere una copia, non appena sarà ultimato".
Ad affiancarlo in questo percorso, uno chef d’eccezione come Luigi Pomata, coautore del libro di cucina “Sapori a colori”, che sta ormai diventando fenomeno virale sul web. Ma lo scopo di questo volume è ben diverso dall’essere una classica raccolta di ricette, si tratta di una idea molto più concreta e pratica: l’obiettivo è quello di aiutare la ricerca per combattere la SLA, Sclerosi Laterale Amiotrofica, così da permettere un sostanziale miglioramento di vita per tutte le persone ammalate e costrette ad alimentarsi tramite sondino.
Perché una quotidianità più serena passa anche attraverso la possibilità di mangiare cibi saporiti godendo del piacere della cucina. E Paolo, che ha da poco ricevuto il tanto ambito attestato dalla prestigiosa Scuola di Cucina ALMA, ha ideato soluzioni gustose e ricche di deliziose alternative per ogni pasto. A Pomata il compito di elaborarle dando corpo ad un mondo a colori che diventa un dono per chi affronta questa patologia o presenta problemi di deglutizione.
“E’ un libro dedicato a malati di Sla ma anche a tutti coloro che hanno problemi di deglutizione – ha spiegato lo chef Pomata - con Paolo abbiamo creato un libro di ricette di piatti che si possono omogeneizzare e somministrare ai pazienti tramite sondino. Non pazienti, ma persone come tante, a cui le papille gustative funzionano, e che meritano di poter sentire i sapori”.
Il secondo, ma altrettanto importante passaggio, è quello di estrarre l’essenza dell’alimento tramite un tampone da posizionare sulla lingua così da poterne sentire il gusto.
Il supporto e l’aiuto al progetto di Paolo stanno veramente diventando un fenomeno mediatico tanto da trasformarsi in un vero e proprio contest sul web che vede coinvolti professionisti dell’alta cucina, personaggi dello spettacolo e della politica. Tutti insieme al fianco di Paolo nella lotta contro la SLA: #iostoconpaolo.
Ecco come aderire!
Si può partecipare anche diffondendo il messaggio e invitando altri a donare e acquistare il libro. E’ sufficiente pubblicare una vostra foto con l’hashtag #iostoconpaolo sui social e taggare altre tre persone invitandole ad acquistare “Sapori a Colori”.
Una importante iniziativa di sensibilizzazione volta a far conoscere la storia di Paolo e aiutarlo nella sua missione di supporto per chi soffre della stessa patologia.
Sabato 13 maggio, alle 17.30, presso la libreria Emily Bookshop di via Fonte d'Abisso (MO), il poeta e scrittore originario di Pavullo presenta la sua raccolta di liriche. L'intervista all'autore.
Di Manuela Fiorini
Modena, 12 maggio 2017
Antropologo, scrittore, poeta e autore musicale. Daniele Biagioni, classe 1980, originario di Pavullo, sull'Appennino modenese, è un artista poliedrico che sa dosare con sapienza i suoi studi e i suoi talenti. I risultati, che gli sono valsi numerosi premi e riconoscimenti in concorsi nazionali, sono piccoli capolavori in cui nessuna parte e preponderante, ma ognuna si mescola alle altre con un'armonia perfetta. Come la raccolta di liriche Non conoscevo le zagare (Edizioni Il Fiorino), che sarà presentata sabato 13 maggio, alle 17.30, presso la libreria Emily Bookshop di via Fonte d'Abisso 9/11, a Modena. La natura e il sacro sono gli elementi che accomunano gran parte delle liriche, componimenti potenti, il cui la parola si fa preghiera nel tentativo di raggiungere l'assoluto.
Abbiamo incontrato l'autore.
Che cosa sono le zagare che danno il titolo alla raccolta?
"Le zagare sono il fiore degli agrumi. Si tratta di fiori bianchi a grappolo che hanno un aroma inconfondibile, come quello dei frutti che andranno a creare: dolce, ma anche acre e pungente. Nel nostro territorio sono rari: l'inverno modenese uccide gli alberi di aranci e limoni. Più che visivo, il richiamo è proprio olfattivo: ci sono dei profumi che ci colpiscono improvvisamente e che ci portano lontano da dove siamo fisicamente in quel momento, ci permettono di trovare un rifugio nei momenti in cui ne abbiamo bisogno e, ovviamente, di conoscere qualcosa di nuovo. L'olfatto è un senso spesso sottovalutato, ma la poesia ci insegna a ricordarcelo. Questa raccolta è uscita nel 2014 con "Il Fiorino" ed è stata sugli scaffali della libreria del mio studio per più di due anni. Ho deciso di presentarla adesso spinto dal mio ingresso ne "I Semi Neri", un'associazione fatta di persone e scrittori eccezionali che mi hanno fatto tornare voglia di mettermi in gioco con ciò che scrivo".
Nelle liriche si sente potente la presenza della natura, che riflette lo stato d'animo del poeta. A volte meravigliosa, a volte melanconica. Come l'elemento naturale ti è di ispirazione?
"Credo che recuperare il contatto con la natura ci aiuti semplicemente e meravigliosamente a ritrovare il contatto con noi stessi. Noi siamo parte della natura, lo sapevano i filosofi greci così come San Francesco. Se ci distacchiamo da essa, ci allontaniamo da noi stessi e diveniamo orfani della nostra parte più vera e profonda. La natura è fonte di ispirazione perché ci parla della nostra essenza più profonda, che segue le stagioni e il mutare del cielo, del giorno e della notte. Noi conosciamo il linguaggio della natura a livello inconscio: basta abbandonarsi ad essa per capirlo di nuovo anche consciamente e farlo fluire nella poesia".
Un altro tema molto presente è quello della tradizione ebraica, per esempio le poesie "Golgota", "Sukkoth", "Aviv", "Come a Gabaon". Come mai?
"Da diversi anni sono affascinato dalla cultura e dalla lingua ebraica. Penso che sia la tradizione antica che, grazie alla scrittura, è giunta a noi più intatta. Non a caso gli ebrei vengono chiamati "Il popolo dei libri". Si tratta di una tradizione millenaria e sconfinata che non ha mai smesso di produrre nuove vie ma, allo stesso tempo, è rimasta fedele al suo asse principale, quello della fede. Nella cultura ebraica ci si può perdere e ritrovare mille e mille volte, senza stancarsi mai. Sono in particolar modo affezionato all'Antico Testamento e, forse ancora di più, al Talmud, il Trattato delle Benedizioni, il libro infinito dei dialoghi rabbinici sulla sapienza.
In altre liriche, tra cui Prometeo, Il respiro di Set, Thar naoi dtonn emerge la presenza di alcuni culti dell'antichità. Che importanza ha per te il divino?
"Credo che i culti antichi abbiano il grande pregio di essere stati vicino alla natura e quindi siano spesso più immediati. La trascendenza cristiana ha il difetto di avere allontanato Dio dalla natura e averlo portato lontano da noi. Penso che la vocazione al divino sia insita nell'uomo. E personalmente ho sempre creduto che la dimensione spirituale sia in realtà quelle più vera. Non importa in che cosa credi ma è solo nella spiritualità che puoi immergerti per trovare un senso e per guarire dalle ferite. E allo stesso tempo, qualsiasi crescita che prescinda dalla dimensione spirituale è, secondo me, fatua. Come costruire sul nulla. Allo stesso modo, anche l'ispirazione poetica ha radici profonde nella spiritualità".
La tradizione ebraica e la tradizione celtica ritornano sovente nelle tue liriche. Quali sono i punti in comune?
"Sono antropologo e so che spesso le tradizioni culturali hanno radici comuni, anche e spesso inaspettatamente. Nel caso delle due tradizioni citate, quella celtica e quella ebraica, occorre prescindere dall'aspetto linguistico, in quando si tratta di lingue provenienti da famiglie davvero lontane: l'ebraico è una lingua semitica, le lingue celtiche sono di matrice indoeuropea; tuttavia, ci sono straordinarie similitudini fra il gaelico irlandese e il sanscrito. Nel profondo delle tradizioni, ci sono poi delle similitudini anche tra il mondo ebraico e quello celtico. Per esempio, nella connessione importantissima con gli elementi arborei: c'è una festa ebraica che si chiama BiShvat e che significa capodanno degli alberi e tutta la tradizione esoterica cabalistica si basa sull'immagine dell'albero della vita che struttura la nostra anima; l'alfabeto celtico è detto "alfabeto degli alberi" perché ogni lettera è associata ad un albero, così come gli alberi spiegano il nostro modo di essere e di vivere attraverso le similitudini con il nostro carattere".
C'è una lirica a cui sei particolarmente legato?
"Ogni poesia che scrivo è la fotografia della mia dimensione interiore in un particolare momento. Quindi, a posteriori, posso esprimere più o meno affezione verso una o verso l'altra. Infatti, la percezione varia in base al periodo che sto vivendo quando rileggo le mie poesie. Quindi posso dirti a quale poesia mi sento particolarmente legato oggi, in questo istante in cui rispondo alla tua domanda, leggendo il mio libro: "Leolam". In questo momento vorrei essere soltanto terra, per osservare il cielo cambiare.
Qual è oggi il ruolo del poeta?
"Il poeta oggi è un visionario che cerca di raccontare alla gente quanto la bellezza si nasconda fra le cose del quotidiano e quanto sia delicato il nostro mondo, pieno di fili invisibili che non vediamo ma che muovono le circostanze intorno a noi. Spesso il poeta soffre più degli altri ma Dio gli ha donato la scrittura come terapia per sopravvivere".
La conduzione è affidata a Daniela Ori, poetessa, scrittrice e presidente dell'Associazioni "I Semi Neri", che leggerà anche alcune liriche insieme all'autore. Sono previsti interventi musicali dello stesso Daniele Biagioni.
INFO
Daniele Biagioni
Non conoscevo le zagare (Edizioni il Fiorino e Ebook Editore per la versione digitale)
Presentazione sabato 13 maggio, ore 17.30
c/o Emily Bookshop, via Fonte d'Abisso 9/11, Modena
www.semineri.it, www.emilybookshop.it
tel 349 5369707
INGRESSO LIBERO
Il "Castello delle fiabe" come è stato definito, ora gestito dal Comune di Grizzana Morandi, è stato fondata nel 1850 dal conte Cesare Mattei. "Vita straordinaria di Primo Stefanelli" è la biografia dell'ultimo proprietario del Castello.
di Laura Corallo
"Vita straordinaria di Primo Stefanelli" è la biografia dell'ultimo proprietario del Castello Rocchetta Mattei, alle porte di Bologna, dal 2005 di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. Il "Castello delle fiabe" come è stato definito, ora gestito dal Comune di Grizzana Morandi, è stato fondata nel 1850 dal conte Cesare Mattei, inventore dell'elettromeopatia, ed oggi rappresenta una delle principali mete turistiche dell'Emilia Romagna, con 60 mila visitatori all'anno.
Il libro è stato voluto dalla famiglia di Primo Stefanelli, i figli Antonietta e Giuseppe e i nipoti Paolo e in particolare Stefano, per tramandare la memoria dell'imprenditore, vissuto fino al 1989 e conosciuto da tutti come il "Mercantone", protagonista di una delle più importanti imprese economiche della valle del Reno a partire dagli anni Trenta e dalla sua rinascita nel secondo Novecento. L'autore del libro, lo storico Claudio Cappelletti racconta "il nome di Primo Stefanelli è legato indissolubilmente a quello del conte Cesare Mattei, fondatore della Rocchetta – spiega Cappelletti -. Stefanelli ha salvato il castello dal definitivo degrado e ha acquistato alcune proprietà che erano state del Conte. Ha avuto il merito di aprire la Rocchetta ai visitatori e offrire ospitalità al suo interno (il Castello era dotato di bar, ristorante e albergo). Negli anni Sessanta l'ha fatta conoscere attraverso un gran lavoro di promozione come opuscoli e cartoline". "Stefanelli è identificato come il proprietario della Rocchetta ma è molte altre cose, imprenditore in più settori – continua l'autore. I momenti più significativi della sua carriera sono la rappresentanza in zona della Singer dal 1934 e la casa del Mobilio, il commercio cioè dei mobili, poi ovviamente la Rocchetta e il Castello Carrobio di Massa Finalese mentre le difficoltà sono state la guerra e l'incendio del suo negozio nel 1947".
Oggi, al recupero della Rocchetta, durata sette anni ad opera della Fondazione Carisbo, nell'ambito di un progetto turistico e culturale funzionale alla valorizzazione della Valle del Reno, potrebbe aggiungersi un altro tassello. Antonietta Stefanelli, farmacista e figlia di Primo Stefanelli, ha proposto infatti la realizzazione di un orto botanico, che ha raccolto il favore del Sindaco di Grizzana Morandi, Graziella Leoni, all'interno del parco della Rocchetta, con tutte le piante che il Conte Cesare Mattei utilizzava per i suoi rimedi elettromeopatici. "Sarebbe un modo per portare avanti la ricerca dei rimedi delMattei, che grazie all'arte medica dell'elettromeopatia, ha attirato a Grizzana Moranti personaggi illustri e nobili da tutta Europa che venivano al Castello a curare i loro disturbi. Una disciplina nella quale Mattei era specialista e unico depositario dei suoi segreti".
Sabato 22 aprile, alle 17.30, al Teatro Alberione di Modena va in scena un reading teatrale tratto dal libro della poetessa modenese Daniela Ori. Regia e sceneggiatura di Annibale Lino Fontana e le voci narranti di Fabio Clerici, Lino Fontana e Mikaela Modigliani.
Modena, 18 aprile 2017
Il Giorno che non c'è, la raccolta di liriche della poetessa modenese Daniela Ori (Edizioni Artestampa) diventa uno spettacolo teatrale per dare voce, anzi, voci, alle emozioni e alle mille sfaccettature dell'animo femminile. Sabato 22 aprile, l'appuntamento è alle 17.30 presso il Teatro Alberione di via Tre Febbraio, a Modena. La raccolta di liriche è suddivisa in sette parti: Amore, Magia, Donna, Ricordi, Figlia, Incanto e Ironia, ognuna delle quali conta cinque poesie, a cui si aggiunge, come epilogo, la lirica che dà il titolo al libro. La regia e la sceneggiatura del reading è di Annibale Lino Fontana, che sarà anche una delle voci narranti, insieme a Fabio Clerici, ecclettico scrittore milanese, e a Mikaela Modigliani.
Ecco che cosa ci ha anticipato il regista Annibale Lino Fontana.
Da dove nasce l'idea di creare uno spettacolo teatrale da una raccolta di liriche?
"Mi è sempre piaciuta l'dea che una raccolta di poesie fosse in realtà un racconto organico "destrutturato e meta emozionale". Chiarisco: una raccolta di poesie è sempre stata pensata dal pubblico come una serie di piccoli componimenti senza alcun legame tra loro, sebbene potessero avere una idea di fondo in comune. Ecco allora la mia idea: scoprire quel legame sotterraneo che unisce le varie composizioni, renderlo palese attraverso una serie di "cuciture" e scoprire le emozioni nuove che questa operazione può suscitare nell'ascoltatore. Spesso si è sentito dire che ascoltare la lettura di poesie fosse "roba da tagliarsi le vene". In parte ciò può essere vero, soprattutto se la lettura privilegia quella vena di melanconia che normalmente accompagna la lettura delle liriche. Per me, invece, le poesie sono dei racconti concentrati di emozioni: dolci, violente, ironiche, tragiche, passionali e così via. Ho voluto fare in modo che tutte queste emozioni emergessero attraverso una lettura più coinvolgente, dove il pubblico si sentisse parte del racconto. La lettura diventa così un racconto organico dove le poesie si fondono con le "cuciture" divenendo un nuovo componimento poetico, dove le singole liriche spariscono per creare qualche cosa di più grande"
Come sarà articolato lo spettacolo?
"Sarà la rappresentazione di come si possa dialogare con se stessi attraverso alcuni componimenti poetici. Nella fattispecie vi è una specie di sdoppiamento di personalità. In ognuno di noi è presente una parte maschile ed una femminile ed è questo che porto in scena. Io rappresento la parte uomo-donna e c'è Mikaela Modigliani che rappresenta la parte donna-donna. Saremo come i cromosomi del DNA dell'autrice che assumono vita propria e combinandosi insieme daranno vita ad un nuovo essere autonomo. Ci saranno momenti in cui sarà l'anima ad avere il sopravvento, e altri dove, benché si tratti in fondo di un "reading", viene espressa la fisicità del racconto poetico. A volte, in maniera provocatoria, dico che la poesia deve essere anche violenza. Nel senso che la fisicità di una emozione deve essere presente nella lettura"
Quali sono state le difficoltà nel trasformare una raccolta di liriche in uno spettacolo teatrale?
"L'unico problema-sfida, in questo caso, è stato quello di immedesimarmi in un ruolo femminile. Sono pur sempre un maschio in cui la parte femminile tenta di prendere il sopravvento e diventa emergente e prioritaria. Il fatto che Daniela abbia strutturato il suo libro in capitoli con una particolare sequenza, in un primo momento, mi ha dato l'impressione di condizionarmi nella creazione del reading, ma mi sono subito ricreduto. Sicuramente è stato piacevole immaginare gli scenari, i personaggi, le emozioni presenti per poi evidenziare il tutto con la voce e con gesti. Sono felice di avere avuto questa opportunità".
Fabio Clerici, scrittore e regista, oltre a voce narrante, ha anche introdotto ogni sezione in cui è suddiviso Il giorno che non c'è, ponendosi come controparte maschile dell'autrice.
Come ti sei rapportato con questa raccolta di liriche così fortemente femminile?
"Ritengo che ognuno di noi coltivi spazi emotivi maschili e femminili e in particolar modo in ambito artistico è necessario addentrarsi nelle pieghe di un vissuto diverso dal nostro, solo allora si può comprendere il fascino e lo stupore che dona l'universo femminile (nel mio caso) a volte apparentemente contradditorio ma ricco di quegli elementi che permettono alla diversità di divenire una fondamentale risorsa comu/nicativa. Con Daniela, amica e donna dalle molteplici stagioni emotive, mi sono lasciato cullare dal piacere di leggere le sue liriche e a mano a mano sgorgavano le emozioni, la penna correva sul foglio bianco dando voce a quel caleidoscopio di sensazioni che mi pervadeva. Il rapporto con quelle parole è stato subito magico, mi sono avventurato nel suo "bosco interiore", per viverne i profumi e i suoni".
C'è una parte del libro o una lirica che hai sentito più tua?
"Ogni lirica rappresenta una cellula del vissuto dell'autrice, creata seguendo le stagioni emotive, che si dilatano nel tempo e nello spazio. Sarebbe ingiusto privilegiare una lirica all'altra, perché sono tutti figlie della stessa madre. Una cosa però la posso dire, in questo libro trovo affascinanti tutte le poesie afferenti alla parte più intima dell'autrice: una su tutte quella che dona il titolo all'intera silloge "Il giorno che non c'è". Dovendo recensire questi versi li ho in un certo senso "adottati" e amati come se fossero miei".
Tu sei milanese, ma con Modena hai un legame particolare. Che cosa ti lega alla nostra città?
"Nel 2012, dopo il terremoto che ha colpito la Bassa modenese, ho partecipato a una missione di soccorso e rapportandomi con gli abitanti della zona sono rimasto colpito dalla loro filosofia di vita, dalla fierezza e umiltà dei gesti quotidiani e dall'attaccamento alla loro terra, segno di profonde radici piantate in quelle campagne violentate. Da quella esperienza è nato un libro, un doveroso tributo a un legame che è divenuto indissolubile".
L'evento è promosso dall'Associazione Culturale "I Semi Neri" www.semineri.it in collaborazione con il Centro Culturale Giacomo Alberione www.centroalberionemodena.it ed è a ingresso libero.
INFO
Centro Culturale Alberione, tel 059/236853 (lun-ven 16-19) o Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Martedì 11 aprile, alle 20.30, la rassegna "La Scrittura si tinge di giallo" si conclude con l'ultimo romanzo, il sedicesimo, di Luigi Guicciardi, che vede il protagonista alle prese con una serie di morti sospette. E, a fare da sfondo, una Modena più cupa e misteriosa di come la conosciamo.
Di Manuela Fiorini
Modena, 10 aprile 2017
Una morte che ha tutta l'aria di essere dovuta a un malore, un gioco erotico finito male, un suicidio assai anomalo e un delitto del passato che ritorna con i suoi fantasmi. E, a fare da sfondo, una Modena più cupa, arrabbiata e misteriosa, diversa, ma assai simile a quella che conosciamo. C'è tutto questo, e molto altro, nell'ultimo romanzo, il sedicesimo con protagonista il commissario Cataldo, del prolifico autore modenese Luigi Guicciardi, che martedì 11 aprile, alle 20.30, sarà alla Rocca di Vignola per l'appuntamento conclusivo della rassegna La scrittura si tinge di giallo. In questa nuova avventura, Cataldo indagherà insieme alla giovane poliziotta Lea Ghedini, sua allieva di un tempo. Il romanzo, infatti, si apre con la morte misteriosa proprio della madre di Lea.
Abbiamo fatto due chiacchere con l'autore.
In questo nuovo romanzo che rapporto c'è tra Cataldo e Lea?
"È un rapporto particolare e un po' complesso. Lei vede nel suo superiore il professionista esperto, maturo, che incute soggezione, ma che al tempo stesso è disponibile all'aiuto, al coinvolgimento umano, alla critica diretta, a volte anche al rimprovero, però sempre costruttivo. Lui invece vede in lei – oltre alle doti professionali – qualcosa di sé quand'era all'inizio della carriera: la voglia di progredire, l'impegno nel lavoro, il desiderio di guadagnarsi sul campo stima e consenso. Alla fine però in lui comincerà ad affiorare, seppur inconsapevolmente, un atteggiamento diverso, di cui l'ultima scena può esser già indicativa".
Come è cambiato Cataldo in questo libro rispetto ai precedenti che lo vedono protagonista?
"In questo romanzo, il sedicesimo della serie, Cataldo torna a investigare dopo una forzata convalescenza a Serramazzoni, imposta da una grave ferita riportata, a cui si è aggiunta la separazione dalla moglie, che lo ha lasciato per un avvocato calabrese e si è portata con sé i due bambini. Ora, quindi, è un uomo solo, più malinconico e riflessivo, che tiene a bada i ricordi e i rimpianti col lavoro e con una relazione che trascina un po' stancamente. Sul piano professionale, invece, è al culmine della sua maturità, soprattutto per l'esperienza sviluppata e per la conoscenza ormai completa che ha di Modena e dei modenesi".
Nel libro si riconoscono diversi luoghi di Modena, ma che Modena è quella di Cataldo?
"È appunto una Modena contemporanea, realistica, al cui mosaico ogni nuova inchiesta aggiunge un tassello in più: c'è stata, via via, la Modena popolare delle comunità di recupero dei tossici, dei profughi di guerra, del vizio del gioco e dell'usura, quella dorata dei gioielli e del collezionismo, poi quella dei rancori accademici, della chirurgia plastica, delle gallerie d'arte, dei licei e delle parrocchie, e ora quella della piccola borghesia e delle periferie (la Madonnina, la Sacca, la Crocetta). È una città che è cambiata, in tutti questi anni, di pari passo con l'evolversi e il mutare del protagonista che tante volte l'ha attraversata...".
Una tranquilla disperazione: come mai questo titolo? Possiamo dire, a posteriori, che nasconde il nome dell'assassino?
"È un'espressione di David Thoreau, uno scrittore americano dell'800; anzi, un ossimoro. L'ho scelto perché allude bene al fatto che nella vita s'incontrano molte persone che – dietro la maschera di comportamenti quieti e controllati – nascondono un sostrato segreto di ansie o di angosce (un po' come un altro mio titolo, Le stanze segrete, di tre anni fa). E, sì, può alludere all'identità dell'assassino...".
Cataldo in questo libro condivide la scena con Lea. La rivedremo nei prossimi romanzi?
"C'è già un giovane nella squadra di Cataldo: il sovrintendente Luca De Pasquale, di collaudata e affidabile intraprendenza. E proprio con lui, di pari grado, per gelosia e rivalità professionale, entrerà in competizione Lea, che quindi continuerà la sua vita (narrativa) anche nel prossimo romanzo".
Luigi Guicciardi
Una tranquilla disperazione
Cordero Editore – Collana Mosaico
232 pag – 15 euro
Presentazione martedì 11 aprile, ore 20.30 c/o Rocca di Vignola nell'ambito della rassegna La scrittura si tinge di giallo.
Una Modena in giallo tra delitti, segreti e trame nei dieci racconti dell'antologia Giallomodena. Venerdì 31 marzo, alle 21, presso la libreria Mondadori Victoria di via Ramelli 101, la presentazione del libro, edito da Damster.
Di Manuela Fiorini
Modena, 30 marzo 2017
Modena come non l'avete mai vista o, meglio, letta. Una Modena in giallo, non solo perché questo è uno dei colori del gonfalone comunale, insieme al blu, ma perché "gialli" sono i dieci racconti raccolti nell'antologia Giallomodena (Damster Edizioni), che sarà presentata venerdì 31 marzo, alle 21, presso la libreria Mondadori Victoria, in via Ramelli 101. Dieci autori, dieci storie che hanno in comune, oltre al genere, l'ambientazione, rigorosamente "modenese", dall'Appennino alla Bassa, tra il nero della notte e lo sfumato della nebbia che tutto avvolge e cela un universo underground di delitti, segreti e trame. Tra gli autori c'è anche Fabio Mundadori, che è anche il curatore della collana #Comma21 che include titoli gialli e noir.
Abbiamo scambiato due chiacchiere con Fabio Mundadori
Come nasce Giallomodena?
"L'idea era quella di realizzare un'antologia di racconti di genere che avessero come protagonista Modena, l'accostamento con il giallo è venuto quasi naturale essendo uno dei colori della città. Il libro sta avendo un buon riscontro di pubblico e con ogni probabilità anche nel 2017 avremo un'antologia di gialli modenesi, proprio come avviene per Bologna che da ormai tre anni ha la propria antologia "invernale" a tema; nel 2016, proprio in contemporanea con GialloModena, è infatti uscita sempre nella collana #comma21 "Le 13 Porte: lo zodiaco del delitto". Non potevamo, quindi, non avere un'antologia "modenese".
Chi sono gli autori e qual è il loro background?
"Gli autori sono Simone Covili, Fabrizio Fangareggi, Manuela Fiorini, Luigi Guicciardi, Maurizio Malavolta, Angelo Martinelli, Giovanni Mistrulli, Fabio Mundadori e Enrico Solmi. Come si può rilevare dalle loro biografie, i background sono i più diversi, anche se principalmente, la maggior parte di loro ha un passato da autore di storie gialle, noir o thriller".
Qual è l'idea di Modena che avete voluto suggerire nel libro?
"È un'idea che vale per tutta quella che viene chiamata "provincia italiana": non importa quanto una città appaia tranquilla, dietro all'immagine pubblica che dà di sé ce n'è sempre una privata, densa di segreti inconfessabili, rancori sopiti e desideri di vendetta pronti a esplodere e venire allo scoperto quando meno te lo aspetti".
Il libro fa parte della Collana #comma21, come mai questo nome e quali titoli/generi raccoglie?
"#comma21, che proprio in questi giorni a spento la prima candelina, è la collana "nera" di Damster Edizioni, casa editrice anch'essa modenese, che raccoglie storie di genere noir, giallo e thriller. Il nome viene per assonanza dal noto comma 22, lo ricordate: "Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo" che è a propria volta nasce dal paradosso di Epimenide di Creta che da cretese diceva che "I cretesi sono tutti bugiardi", un'affermazione che nega e conferma se stessa senza possibilità di soluzione. La frase di Epimenide trasmette un po' la stessa sensazione che ci prende quando ci troviamo di fronte a un enigma apparentemente irrisolvibile, proprio come nei gialli".
Ma c'è un secondo aspetto che ha contribuito a dare il nome alla collana, come molti appassionati del genere sanno, l'autore Van Dine stilò una sorta di elenco di regole che devono essere rispettate se si vuole scrivere una storia di genere mistery, queste regole sono venti. Ebbene la ventunesima è appunto pubblicare in questa collana che è appunto il #comma21"
AA.VV.
Giallomodena
Collana #comma21, Damster Edizioni
Pag 200 - € 14
www.comma21.it
www.damster.it
Presentazione: venerdì 31 marzo, ore 21, c/o Libreria Mondadori Victoria, via Ramelli 101 (presso Cinema Multisala Victoria).tel 059/454622, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Sabato 25 marzo, alle 17, presso la libreria Emily Bookshop a Modena il giornalista e scrittore romagnolo presenta il suo ultimo libro, un "fantasy a Km zero" dove personaggi storici, fantastici e animali si alternano nel dipingere una favola che è metafora del nostro tempo.
Di Manuela Fiorini
Modena, 23 marzo 2017
In "Noa. La grande truffa" (Sensoinverso Edizioni), un'orda agguerrita di castori, al soldo della terribile Castoro De' Boschi, vuole invadere l'Emilia Romagna. E lo fa cominciando dalla Diga di Ridracoli che, minata alla base, riversa le acque sul territorio, minacciando tutta la regione. La minaccia è reale, anzi surreale! Al punto che, da un paese lontano lontano, oltre l'Oceano, arriva anche la donna più potente del mondo, la Presidente Himmary. A darle man forte e trovare un modo per sconfiggere l'orda barbarica di animaletti agguerriti, ci sono, tra gli altri, la Sfoglina di San Giovanni in Persiceto, il Duca di Bettola, due dottoresse gemelle, Marzia e Miriam Galapagos, una giornalista e persino un legionario romano. A fare da sfondo, ci sono luoghi reali e riconoscibilissimi della regione, da Piacenza a Rimini. I comprimari hanno soprannomi improbabili ed evocativi, mentre, di tanto in tanto, una citazione musicale o l'incursione di un personaggio noto, da Bono Vox ai Rolling Stone, passando da Woody Allen, (in versione Jazz), ricordano la formazione dell'autore, il giornalista e scrittore Stefano Andrini, che sarà presentato sabato 25 marzo, alle ore 17, presso la libreria Emily Bookshop di via Fonte d'Abisso 9/11, a Modena, in collaborazione con l'associazione culturale I Semi Neri.
Abbiamo fatto due chiacchiere con l'autore
Un romanzo irreale, surreale, anzi realistico...La terribile Castoro de Boschi e i suoi castori hanno fatto crollare la Diga di Ridracoli e puntano alla conquista dell'Emilia Romagna. Come nasce Noa e che cosa si nasconde dietro a questa divertente metafora?
"In lingua maori il titolo del romanzo significa "carità" e anche "gratuità". Due termini praticamente scomparsi dal nostro vocabolario. Forse, anche per questo, siamo diventati tutti più tristi e cattivi. Guardiamo solo il male e il bene lo abbiamo relegato in soffitta tra le anticaglie. La scommessa di Noa, che pure in termini molto realistici racconta una vicenda potenzialmente drammatica, è quella di riaprire la finestra impolverata per affacciarsi su una speranza possibile. Un bambino che piange in lontananza e una tanguera capace di commuoversi non sono un omaggio all'insopportabile happy end hollywoodiano. Ma un cartello segnaletico che indica un nuovo inizio e una nuova strada. Per tutti".
Perché i castori? Ti sei ispirato a qualche episodio in particolare?
"Qualche era geologica fa mi sono divertito, complice la mia passione per il greco, a tradurre il poemetto Batracomiomachia, ovvero la guerra tra i topi e le rane. Perché, come dimostrano le favole del grandissimo Esopo, mettere al centro di una storia gli animali significa capire meglio anche gli umani. Tutti ci ricordiamo della volpe e dell'uva. Che fa riflettere più di mille libri di storia".
Hai definito Noa, un "fantasy a Km 0", ma gli elementi del fantasy classico sono del tutto stravolti. Sul Km 0, invece, si potrebbe negoziare...I tuoi personaggi si radunano da tutta l'Emilia Romagna, con citazione di luoghi reali e riconoscibilissimi, per combattere l'imminente minaccia. Come spieghi, allora, questa tua autodefinizione dell'opera?
"Il chilometro zero è volutamente una provocazione. Per indicare, con una immagine suggestiva, che il dodicesimo uomo in campo di questa squadra di eroi è proprio il nostro territorio. Certo, la gente si sposta (siamo tutti globali e globalizzati d'altra parte). Ma rimane attaccata alle sue radici e alla sua memoria. Non per una sorta di revival nostalgico alla "I migliori anni...". Ma perché quelle radici e quella memoria sono il salvacondotto per una nuova civiltà. È in quest'ottica che il mio libro sovverte i canoni del genere. La realtà sfida il fantasy e lo muta geneticamente".
In Noa fanno la loro "apparizione", come deus ex machina, ma anche come semplici spettatori di passaggio, personaggi della musica, da Bono Vox ai Rolling Stones. Un omaggio al tuo passato di dj?
"La musica è nel mio Dna fin da quando, bambino vinsi uno dei primi talent della riviera romagnola cantando 24 mila baci. Nella mia lunga esperienza di Dj in una delle prime radio libere ho imparato ad amare la musica e ho cercato di capirla. Facendo una scoperta rivoluzionaria: la musica unisce e salva. Un flusso vitale che nel libro culla e accompagna la storia fino a farla diventare la storia della porta accanto".
Noa la tanguera, la presidente americana Himmary, la villain Castoro de Boschi, la Sfoglina, l'ispettore capo Natiseau, Marzia e Miriam Galapagos...I personaggi principali sono tutte donne. Un omaggio alla femminilità in tutte le sue sfaccettature?
"ruffianeria. Semplicemente una constatazione. La nostra regione, che fin dal nome è donna, è stata plasmata nei secoli dal genio femminile. Ce lo ricordano gli aneddoti delle nonne, ce lo confermano le testimonianze delle donne di oggi. Per questo ho scelto di contrastare il male incarnato da Castoro, da una singolare compagnia dell'anello formata da donne che manco si conoscono".
Non ti sei fatto mancare nemmeno un bel viaggio nel tempo. All'epoca romana, per la precisione, dove troviamo un eroico cavaliere, Lucio Cornelio Silvio...un antenato di qualcuno che conosciamo, suppongo?
"Ogni riferimento a persone e fatti ... In realtà nel libro entra buona parte della realtà politica dei nostri giorni. Trasfigurata dalla fantasia ma abbastanza riconoscibile. Come nelle oscure profezie di Nostradamus ho immaginato rovinose cadute (che ci sono effettivamente state) e trionfi (che non sono diventati tali). Ecco se volessi dare un senso a questa storia è che un senso ce l'ha: la politica da sola è impotente. Se si illude di poter fare a meno del popolo la diga di Ridracoli diventa il nostro mar Rosso che ci travolge tutti. Dalla via Emilia al West"
INFO
Stefano Andrini
Noa, la grande truffa
Sensoinverso edizioni
82 pagg – 11 euro
Presentazione sabato 25 marzo, ore 17
c/o Emily Bookshop, via Fonte d'Abisso 9/11, Modena
Il nuovo romanzo della scrittrice modenese, nella collana Comma 21 di Damster Edizioni, è un noir che mette a nudo le relazioni tra uomini e donne, genitori e figli, adolescenti e amanti. E, a fare da cornice, il circo mediatico che si scatena attorno all'assassinio di una bambina di otto anni.
Di Manuela Fiorini
Modena, 18 marzo 2017
Un ritratto nudo e crudo della società moderna, un romanzo "corale" dove i personaggi, più di una ventina le voci narranti, si rivelano essere uno specchio della contemporaneità, tra tradimenti, pregiudizi, apparenze da salvare, malesseri taciuti a lungo che poi "deflagrano" con devastanti effetti collaterali. E, a fare da cornice, anch'essa impietosa, il circo mediatico che si scatena attorno al feroce assassinio di una bambina di otto anni, il cui corpo viene ritrovato da un altro bambino in un fosso. A vegliarla solo un'inquietante bambola appesa ad un ramo, pezzo della collezione di una contadina eccentrica e forse pazza, in realtà ritiratasi da una società falsa, ipocrita e senza speranza di uscire dal loop emotivo e tossico con cui si pasce ogni giorno. Difficile non riconoscerci e non riconoscere situazioni vissute nel "Il Colore della nebbia", l'ultimo romanzo di Eliselle uscito nella collana Comma 21 per Damster Edizioni. Un noir che colpisce come un pugno nello stomaco, grazie allo stile asciutto e scorrevole, e a un'autrice che non giudica, ma lascia al lettore il giudizio sui personaggi e sulle situazioni, un giudizio che, però, stenta ad arrivare e viene lasciato volutamente in sospeso, poiché "Il colore della nebbia", dopotutto, è quello che "avvolge" e coinvolge tutti noi.
Ne abbiamo parlato con Eliselle.
Partiamo dal titolo: qual è (e che cos'è) il "Colore della Nebbia"?
"Il colore della nebbia è quello denso e lattiginoso che siamo abituati a vedere noi che viviamo in Emilia. Ma nel caso del mio romanzo è anche il colore che confonde e impedisce ai protagonisti di distinguere il bene dal male, la vita reale da quella recitata, la scelta giusta da quella sbagliata, trascinandoli nel vortice dell'ipocrisia che tutti, ma proprio tutti, sono costretti a guardare in faccia".
Tra le pagine del romanzo di alternano le voci di più di una ventina di personaggi. Nessuno di loro, tuttavia, ha il suo "happy ending", una scelta controcorrente?
"Credo che sia una scelta obbligata, nel senso che la storia e i suoi protagonisti mi hanno portato proprio lì e non ho potuto fare altro che seguirli nelle loro evoluzioni lasciandoli andare dove volevano e dove il loro vissuto li portava. C'è un filo di speranza per alcuni, ma non a caso sono coloro che hanno avuto la forza di affrontare i propri demoni. E in qualche modo, hanno cercato di superare le proprie paure".
Quanto c'è dell'autrice nei personaggi de "Il colore della nebbia"?
"L'autrice scompare, è obbligata a farlo, nel momento stesso in cui sospende il giudizio raccontando la storia. Ovvio che rimane col suo carico emotivo che trasmette al vissuto dei personaggi, con le esperienze di vita, con le letture che ha fatto, con il confronto con gli altri. Per i personaggi più "sgradevoli" e lontani non c'è altro modo se non staccarsi completamente da sé e lasciarsi trascinare dalla loro personalità, anche se totalmente differente. In alcuni invece ci sono fragilità in cui anche l'autrice si rispecchia e si riconosce, ma è il suo modo per lasciarle andare".
Il libro è anche un feroce ritratto del "circo mediatico" che nasce attorno a un episodio delittuoso, in questo caso l'assassinio di una bambina di otto anni, dove tutti vogliono dire la loro, tutti aspirano al proprio "momento di gloria" e la vittima stessa rischia di passare in secondo piano rispetto a chi sgomita per andare in TV o sui giornali. Quale messaggio hai voluto lanciare al lettore?
"È stato naturale raccontare di questa situazione perché ce la troviamo ogni giorno davanti e la viviamo spesso da vittime inconsapevoli. Ho cercato di indagare quale potesse essere la differenza tra il compartecipare a un dolore e il servirsene per trarne un guadagno, sociale o economico, tra l'empatia reale e la speculazione morbosa che vediamo spesso utilizzata dai media per cavalcare una notizia drammatica e trasformarla in spettacolo. Il messaggio è una sorta di invito al risveglio, per fare in modo che questa morbosità passi di moda e venga archiviata una volta per tutte".
Due personaggi agli antipodi: Valentina, la preadolescente fredda e calcolatrice, un "mostro" per la sua età. E Giulia, che si limita a "fare da spettatrice", incapace però di agire, dice sempre di sì, come se tutto quello che accade intorno a lei non la riguardi o quasi. Chi sono oggi le "Valentine" e le "Giulie"?
"Per rispondere prendo a prestito le parole di Vittorino Andreoli, che a mio avviso insieme a Umberto Galimberti ha tracciato diverse vie per spiegare quello che siamo diventati oggi: "Noi italiani siamo masochisti contenti, animati da una pulsione distruttiva per cui proviamo gratificazione solo nella catastrofe. Siamo individualisti spietati, rifiutiamo l'Altro e l'importanza dell'insieme, trascurando che la vera realizzazione si ha nella gioia della condivisione e del noi. Siamo attori, amiamo recitare, siamo abili a raccontare ciò che non siamo e ci rifugiamo nel racconto distorto di noi. Abbiamo una fede incredibile che ci impedisce di cercare soluzioni e organizzare azioni efficaci, ma ci fa sperare continuamente in un intervento salvifico nel domani." E ancora, in un'altra intervista: "Morire non ha poi tanto senso, uccidere è banale, si invita la morte a ballare. [...] C'è l'individualismo spietato: c'è l'io in famiglia, c'è l'io dappertutto. Siamo dei narcisi spaventosi, tutto io, faccio io. Se il narcisismo è maschile, la seduzione è femminile. E tutte si mostrano, mostrano tutto. Pur di essere "io" faccio qualsiasi cosa, è un narcisismo fondato sull'io e sul mio. Quello che è del "noi" non importa, lo roviniamo." Le Valentine e le Giulie credo che incarnino queste tendenze tutte contemporanee della società, e sono tendenze sempre più diffuse, a macchia d'olio, in qualunque strato, in qualunque ambiente, e sotto qualunque forma".
I personaggi maschili non fanno una gran bella figura. Sono traditori, narcisisti, cinici, tengono comodamente il piede in due scarpe. Nessun riscatto per loro. Non ci sono più "principi azzurri"?
"Non ci sono mai stati, le donne si sono illuse che esistessero perpetuando una visione completamente sballata della realtà e tenendo se stesse ingabbiate in ruoli e in situazioni dolorose. Le favole sono altra cosa, la mia è una fiaba nera, nerissima, che cerca di togliere il velo sulle doppie vite non solo degli uomini, ma in generale nelle relazioni. Laddove c'è onestà e consapevolezza non c'è errore: il problema e la chiave stanno proprio lì, per essere onesti con se stessi serve coraggio, per essere consapevoli bisogna sconfiggere schemi e paure, ma la pigrizia e il desiderio di lasciare "le cose come stanno" molto spesso è più forte di ogni desiderio di miglioramento".
Anche la voce dei bambini, spesso, è disincantata, realista, priva di ogni innocenza. Sono capricciosi, tiranni, spietati osservatori e giudici degli adulti. Sono davvero così i bambini di oggi?
"I bambini di oggi sono senza filtri, svegli, attenti e giudicanti. Davanti a loro hanno spesso esempi deboli, e sono spugne, quindi imparano ciò che vedono. Io dico sempre che servirebbe una patente per diventare genitori, perché richiede competenze che molto spesso non c'entrano col desiderio di amare e crescere una nuova creatura, e sono competenze che richiedono una lucidità e una consapevolezza immense: i figli non sono capricci o giocattoli, né strumenti di affermazione personale e sociale, sono persone che devono essere cresciute con indicazioni, educazione e serenità".
Una curiosità: per descrivere i personaggi del tuo romanzo ti sei ispirata a situazioni e persone reali?
"C'è sempre un po' di realtà in quello che scrivo. In questo caso ce n'è parecchia, perché per forza di cose ho fatto ricerca, ho spulciato fatti di cronaca, ho osservato e studiato fenomeni come bullismo, narcisismo, comportamenti adolescenziali, razzismo, e ho raccontato il tutto ambientandolo in una città di provincia, Modena, creando riferimenti a luoghi che a un occhio attento non possono sfuggire. Per i personaggi, sono stata aiutata da alcune esperienze negative vissute in prima persona e da altre raccontate da persone vicine, le ho elaborate, frullate e rese su carta: dopotutto, si dice che ogni riferimento a fatti e persone sia puramente casuale, no?".
Eliselle
Il colore della nebbia
Collana Comma 21 – Damster Edizioni
410 pagine – 15 euro
www.damster.it
www.eliselle.com
Venerdì 27 gennaio, alle ore 18.30, presso la libreria di via dei Tintori, a Modena, il filosofo, etologo e antropologo bolognese parlerà del suo nuovo libro edito da Mucchi. Lo abbiamo incontrato in anteprima.
Di Manuela Fiorini
Modena, 27 gennaio 2017
Ogni giorno ci confrontiamo con l'altro, o, meglio con l'Alterità, ma, anziché vederla come un'opportunità e occasione di crescita, tendiamo a chiuderci nel nostro egoismo e antropocentrismo, negandoci quindi tutte le occasioni di arricchimento che il confronto con ciò che è "altro" da noi ci può offrire. È proprio l'Alterità il tema dell'ultimo libro del filosofo, etologo e zooantropologo Roberto Marchesini, che oggi, venerdì 27 gennaio, alle ore 18.30, sarà alla libreria UBIK di via dei Tintori 22, a Modena, per presentare il suo libro Alterità. L'identità come relazione, edito da Stem Mucchi Editore con prefazione di Ubaldo Fadini.
Abbiamo incontrato in anteprima l'autore.
Come nasce questo libro e quale messaggio vuole comunicare?
"L'idea è quella di considerare il nostro tempo alla luce della alterità, un tema che io credo oggi centrale. Pensiamo dalle grandi crisi umanitarie, alle crisi geo-politiche, alle crisi ecologiche, alla distruzione della bio-diversità, alla distruzione degli animali, ai grandi rischi dell'individuo stesso, ai grandi problemi e sofferenze dell'individuo stesso. L'individualismo non è assolutamente qualcosa di confortante, anzi è la più grande sofferenza, perché se cerchi il senso dentro te stesso inevitabilmente ti imbatti nell'inutilità di tutto. Questo è il grande problema e il grande tema di oggi: riconoscere le relazioni, l'importanza delle altre alterità, perché solo se siamo in grado di considerare le altre specie non solo sotto il profilo biologico o quello estetico, vogliamo avere un mondo che è diverso (la biodiversità intesa come qualcosa di esteticamente ammirevole o strumentalmente utile, per esempio) o che è più bello, ma qui la questione è ontologica e di attribuzione di senso. Spesso pensiamo che sia un problema pratico: è anche un problema pratico ma non solo un problema pratico. Nel momento in cui non riusciamo più a capire cosa sono gli altri abbiamo perduto di valore noi stessi".
Che cosa è l'Alterità (o le alterità)?
"Il tema dell'alterità è centrale nel nostro periodo storico per diversi motivi. Il primo tra questi è la globalizzazione, attraverso cui ci confrontiamo con altre culture e con persone che hanno stili di vita, lingua e religioni differenti dalle nostre. Il secondo è il rapporto tra uomo e donna, che sono oggetto di una decadenza dei ruoli tradizionalmente imposti loro attraverso il superamento di un paradigma complementativo. Il terzo aspetto riguarda il confronto con l'alterità all'interno della cornice individualista del nostro tempo, in cui si viene a perdere la capacità di relazionarsi veramente con gli altri. Si tende a vedere il mondo come orbitale a sé e quindi a considerare gli altri come degli strumenti di utilizzo per ottenere determinate cose non solo in relazione al non-umano ma in particolare in relazione agli animali, perché viviamo in un'epoca dove le persone hanno affettività verso le altre specie, ma non hanno accettazione delle alterità. L'altro mi si pone di fronte ma alla fine non rimane distanziato, perché alla fine mi sollecita una risposta, che sia integrativa che sia interpretativa. L'influenza che può avere sulla mia bibliografia il tema dell'alterità è centrale".
In che modo possiamo relazionare il nostro Io con l'Alterità?
"Allenando la nostra capacità di superare l'egocentrismo e l'antropocentrismo, cioè superare la tendenza alla gravitazione interna e quindi il sapersi mettere in ascolto, il sapersi decentrare, saper lavorare sull'empatia, sulla propria capacità di cura e sulla capacità di accettare il doppio flusso narrativo. Molto spesso noi parliamo di integrazione dell'altro ma questa rimane superficiale. Integrare significa permettere all'altro di narrarsi, di narrare la sua storia e da parte tua, la voglia di raccontargli la tua. L'integrazione con l'alterità può essere interpretata come una capacità di reciprocità comunicativa e quindi di dare luogo a espressioni. Se vogliamo, la capacità di incontrare un cane e un gatto significa dare al cane e al gatto la capacità di esprimersi e quindi di dare qualcosa che vada al di là delle tue aspettative, da quello che tu pensi, dalle tue proiezioni e quindi aprirsi a questo inaspettato narrativo che l'altro ti dà e nello stesso tempo tu stesso darti nel vero senso della parola. È molto diverso darsi una relazione rispetto all'utilizzo di uno strumento: darsi una relazione significa aprire la propria disponibilità, il proprio cuore, la propria disposizione".
Quando gli "altri" sono diversi da noi, per esempio, gli animali, cani o gatti con i quali abbiamo deciso di condividere la vita, come possiamo entrare in relazione con loro senza fare errori di comunicazione o prospettiva?
"Non è possibile non fare errori e non penso che sia così deleterio avere consapevolezza della propria fallibilità. La fallibilità è una consapevolezza che ci aiuta ad evitare l'arroganza. Il problema più grande non è tanto l'ignoranza, quanto il non sapere di non sapere. È un'arroganza che non ti pone in discussione, che non ti pone in una situazione di problematicità. La società urbana è una società profondamente ignorante e arrogante nei confronti degli animali, quindi molto spesso le persone dicono "questi animali sono viziati", ma spesso sono maltrattati perché non si mette in considerazione la loro peculiarità, la loro diversità e il loro aspetto. Qui si tratta, secondo me, di essere in grado di declinare questo nostro amore in una concezione non egocentrica, quindi avere la voglia di leggerne di più, di saperne di più, di intraprendere un percorso che somiglia a quello di chi vuole andare a Londra e studia l'inglese, quindi il suo desiderio è quello di poter capire, sapersi esprimere e si applica rispetto a questo. Noi invece tendiamo molto allo spontaneismo, ma quando ti trovi di fronte a qualcuno che è portavoce di un linguaggio diverso e di una prospettiva diversa della realtà, la spontaneità non va da nessuna parte. L'autenticità è la capacità di declinare la persona, il personalismo, con la conoscenza dell'altro e quindi non con l'ignoranza".
Che cos'è il post umanesimo?
"È la consapevolezza o, se vogliamo, la riflessione filosofica che prende in considerazione l'essere umano non come un'entità autarchica e quindi un'entità autosufficiente, un'entità che sia realizza da sola, un'entità che produce tutte le sue qualità per creatività propria, per emanazione ma come un'entità che si coniuga al mondo. Quindi, tutte le sue qualità sono frutti ibridi, sono l'esito di questa costante ibridazione, di questo costante meticciamento e di questa contaminazione con il mondo. È riconoscere di avere questa sorta di identità ecologica, un'identità che prende forma attraverso la relazione e non è precedente alla relazione. È la relazione che dà dei connotati, i connotati non sono precedenti, ma esistono nella relazione. Questo è perché siamo abituati a concepire questa idea dell'individuo come monade, come mondo separato disgiunto, che entra in rapporto con altri mondi, ma che sostanzialmente è impermeabile e ha delle qualità che precedono l'incontro. In realtà, se pensiamo a un bambino, il bambino emerge nel rapporto con la madre poi piano piano emergiamo nel rapporto con i nostri simili, con gli altri animali, con il contesto, con il mondo, con le piante. Non siamo delle identità che sono impermeabili al mondo. Il postumanismo sottolinea questa natura ibrida dell'essere umano. Perché è importante? Perché se io avrò consapevolezza della mia natura ibrida, avrò cura delle mie relazioni, se viceversa ritengo che le relazioni possano essere degli strumenti che mi consentano di realizzare delle cose, ma che non hanno effetto su ciò che io sono, allora io avrò una visione fondamentalmente egocentrica.
SCHEDA DEL LIBRO
Roberto Marchesini
Alterità. L'identità come relazione
Stem Mucchi Editore
189 pagine - € 16
www.mucchieditore.it
www.marchesinietologia.it
L'autore
Roberto Marchesini (Bologna, 1959) è filosofo, etologo e zooantropologo. Direttore del "Centro studi filosofia postumanista" e della "Scuola di interazione uomo-animale" (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della filosofia, dell'etologia e della bioetica. Dirige inoltre la rivista Animal Studies. Rivista italiana di antispecismo.
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