Il superamento dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori sta comportando le medesime difficoltà del rinnovamento della Costituzione.
di Lamberto Colla - Parma, 21 settembre 2014
Mentre si continua a discutere sull'articolo 18 senza mai giungere a una definitiva, organica e moderna riforma del lavoro, sta scomparendo proprio ciò per il quale va tutelato il lavoratore: il Lavoro. La crisi è cinica e fa tagli lineari e non selettivi spazzando via tutte le imprese, micro, piccole e medie soprattutto, e tra queste anche quelle che si trovano nel bel mezzo del guado di delicati processi di ristrutturazione.
Imprese spesso efficienti che avevano intrapreso un programma evolutivo sostenibile in seguito compromesso da ragioni molto spesso di natura extra aziendale. Il fallimento di un grosso cliente o anche la sola riduzione degli affidamenti bancari può dare il colpo di grazia alla già precaria stabilità finanziaria. E con la morte di queste imprese scompare anche il loro know how, quel complesso di competenze e conoscenze, in carico all'imprenditore e ai suoi lavoratori, che hanno trovato il modo migliore di esprimersi proprio in quella impresa.
L'inefficienza viene spazzata via dal tornado della recessione senza guardare in faccia i motivi che dell'inefficienza sono stati la causa.
E così i lavoratori in possesso di skills interessanti vanno ad aumentare l'elenco dei disoccupati disposti a accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi compenso contribuendo perciò a innalzare le barriere di accesso al primo impiego e molto spesso squalificando le proprie conoscenze e competenze pur di portare a casa uno stipendio. Il risultato è il consolidarsi di un processo perverso di impoverimento economico, intellettuale e sociale i cui effetti negativi sono difficilmente immaginabili. Si discute da oltre un decennio sull'articolo 18 che tutela i dipendenti illegittimamente licenziati e non si interviene pesantemente per incentivare le imprese a creare il lavoro. L'articolo 18 è stata una conquista sindacale enorme e frutto di sacrifici e lotte durissime. Ha protetto i lavoratori da quegli imprenditori che non governavano l'azienda secondo il principio del "buon padre di famiglia". Imprenditori di questo stampo ce ne sono ancora molti ma in misura molto maggiore ci sono quelli che si tolgono il pane dalla bocca pur di non lasciare senza stipendio i propri collaboratori. Ma questi non fanno notizia sino a quando l'umiliazione del fallimento (più morale che legale), prende il sopravvento e decidono di salutare questa vita con l'estremo gesto guidato dalla disperazione e dall'umiliazione. La loro disperazione verrà quindi compianta nei 30 secondi del telegiornale per poi passare nel dimenticatoio lasciando una famiglia in più nell'isolamento e nel dolore. Nessuno si occuperà più di loro, congiunti di quel lavoratore che aveva deciso di fare l'imprenditore onesto tutti come dovrebbero essere. Dal 1970 a oggi l'Italia è cambiata e cambiati sono i lavori intesi come mestieri. I lavoratori non sono solo dipendenti ma anche collaboratori e professionisti legati con varie tipologie contrattuali frutto di riforme del lavoro incompiute, inefficienti e zoppe il cui unico scopo era la flessibilità e la facilità di ingresso e uscita dal lavoro. Riforme discusse molto ma avviate solo in parte i cui processi di rinnovamento si sono tutti infranti contro l'articolo 18 della legge 300 del 20 maggio 1970, ovvero lo Statuto dei Lavoratori. Occorre che i sindacati e la classe politica prendano atto che la società è cambiata, che i principi dell'articolo 18 sono sacrosanti ma sacrosanti sono anche i diritti dell'imprenditore di dotarsi delle risorse più adeguate a perseguire gli interessi aziendali. Sacrosanti sono i diritti dell'imprenditore e dei lavoratori di liberarsi di collaboratori e colleghi che, in salute e coscienza, oppongono resistenze al cambiamento, generano clima ostile e contribuiscono all'abbattimento dell'efficienza aziendale.
Premiare i giusti e punire gli ingiusti è l'unico modo per tutelare la cosa comune: l'azienda e con essa, l'imprenditore, i dipendenti, i collaboratori e fornitori. Una catena del valore che non può e non si deve compromettere.
Certo la flessibilità del lavoro può risultare un rischio ma senza lavoro non c'è impiego e senza l'occupazione non c'è consumo. Ma soprattutto non va dimenticato che la stato di disoccupazione di lunga durata logora in profondità colpendo i sentimenti più intimi.
Uno Stato che non difende la dignità dei propri cittadini non rappresenta una società civile.
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Art. 18. Reintegrazione nel posto di lavoro.
1. Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.