Un grande fotografo, un parmigiano vero, una persona attenta al mondo circostante, capace di cogliere in uno scatto l’essenza di un’emozione. Spesso, purtroppo, della sofferenza. Marco Gualazzini, porta a Milano la sua mostra “Resilient”: un progetto che sarà visibile al pubblico a partire da giovedì 31 gennaio, nelle splendide sale della Fondazione Forma in Via Meravigli.
Appuntamento alle ore 18.30 per l’inaugurazione. A seguire, spazio fino al 24 marzo, dal mercoledì alla domenica (tra le 11 e le 20) per osservare i suoi lavori. L’ingresso è gratuito.
Com’è nata l’idea di questa esposizione?
“La mostra è figlia della pubblicazione di un libro dal medesimo titolo: “Resilient”. È il risultato di un lungo lavoro fatto sul mio archivio personale: dieci anni di attività in Africa. Per questo doppio impegno, volume ed esposizione, devo ringraziare il collezionista d’arte Giampaolo Cagnin e Roberto Koch, editore dell’agenzia “Contrasto” per cui lavoro. È grazie a loro che ho iniziato questo viaggio a ritroso ne tempo”.
Che significato ha per lei “Resilient”?
“Non è stato facile riassumere dieci anni di Africa. Dal 2009 ho collezionato tantissimi servizi, molto diversi tra loro. Ho seguito le crisi più grandi del continente fino a ottobre 2018. Sono partito da reportage che avevano come tema l’islamismo radicale, sono incappato quasi per caso nel Congo, terra con molti altri problemi indipendenti dal fattore religioso. E ancora, la Somalia che dal 2011, quando l’ho vista per la prima volta, sta cambiando anno dopo anno”.
Su che base ha scelto le fotografie?
“Il libro parte dai tanti traumi di un intero continente. La resilienza nasce in risposta a questi drammi. La mostra è una conseguenza del volume, è un lavoro fatto in sottrazione nei confronti delle immagini pubblicate nel libro. Ho scelto gli scatti cercando di raccontare tutto il percorso che ho vissuto”.
Cosa le ha regalato “Resilient”?
“Mi ha dato la possibilità di rileggere i miei servizi con un occhi diverso, più maturo. Già dal 2015 devo ammettere di aver avuto modo di aggiungere una certa dose di consapevolezza al mio lavoro. La necessità di preparare un libro mi ha messo davanti all’obbligo di riflettere sul percorso che ho fatto”.
E cosa è scaturito da questa riflessione?
“In questi dieci anni ho raccontato il dolore degli altri. É il mestiere che faccio. Guardare indietro mi è servito per capire se sono stato coerente con le scelte che avevo fatto. Un grande fotografo come Paolo Pellegrini ha affermato che ogni dieci anni è fondamentale fare il punto della situazione per capire ciò che è stato realizzato: sono contento di aver avuto questa opportunità che da solo, forse, non avrei fatto mia”.
Pietro Razzini