Sabato, 09 Aprile 2022 11:05

Chirurghi italiani negli USA, non è come nei film In evidenza

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Per la pagina “Italians” Quotidianoweb.it, dedicata agli Italiani all’estero, abbiamo intervistato telefonicamente la dottoressa Ilaria Rispoli, medico chirurgo. Il suo racconto ci ha lasciato basiti.

Ilaria Rispoli per Quotidianoweb.it 8 aprile 2022 -

«Io sono un chirurgo. Nel 2008, laurea di medicina alla mano, mi sono iscritta all'esame di specializzazione per l'anno successivo. Unica domanda inviata: chirurgia generale all'Università di Udine. La specializzazione in chirurgia generale in Italia dura 6 anni e sono stati anni bellissimi, difficili certamente, ma pieni di soddisfazioni. Ho imparato non solo a muovere le mani, nel vero senso della parola, ma disciplina, rigore, rispetto della gerarchia, per i colleghi e per i pazienti. Ho imparato ad essere affidabile. Nel luglio 2015 guadagno quindi il diploma di chirurgia generale col massimo dei voti.

Al tempo non era facile né scontato trovare un posto di lavoro come chirurgo in Friuli Venezia Giulia e nemmeno in Italia in generale. Pertanto frequentavo gratuitamente il reparto di chirurgia di Udine. Dopo il diploma di specializzazione sono stata un chirurgo all’Ospedale di Pordenone per 3 anni. Oltre alla chirurgia generale fatta di interventi ordinari e d'urgenza, ero uno dei soli due chirurghi che si occupavano della chirurgia dell'obesità. Appagante. Impegnativo. Ero contenta a metà. Avevo la mia carriera, ma mio marito era negli Stati Uniti.

Dopo 16 anni dall'iscrizione al concorso per entrare alla facoltà di Medicina e chirurgia e dopo 10 dalla sudata laurea, nel 2018 mi iscrivo agli esami per ottenere il riconoscimento della laurea negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non riconoscono le lauree di medicina di medici internazionali. Ho passato il primo esame nel giugno 2018, il secondo a marzo 2019 e l’esame di lingua inglese in ottobre 2020.

L'ultimo passo verso una carriera negli States consiste adesso nell’entrare nuovamente in una scuola di specializzazione americana.  Gli Americani non solo non riconoscono la Laurea, ma nemmeno la specializzazione fatta al di fuori degli Stati Uniti. Rifare, ancora una volta la specializzazione? Assurdo e inconcepibile. Avvilente ma reale.

L'ingresso in specializzazione è un concorso nazionale, circa 8000 candidati di chirurgia per 2700 posti con il 7% di specializzandi stranieri. La maggioranza delle scuole di specializzazione richiede la cittadinanza americana o l’essere possessore di green card, quindi di fatto eliminano tutti i possessori di visti lavorativi. I posti di medicina negli USA sono circa 23000 ogni anno, i genitori per fare entrare i figli alla School of Medicine pagano circa 250/300 mila dollari. Le famiglie si indebitano. Gli studenti si indebitano e sono costretti a richiedere gli “student loans”, prestiti ad interessi esorbitanti: dal 3-5% se richiesti tramite programmi federali ma che possono sfiorare il 13% se richiesti a enti privati. Per gli americani è riservato il 98% dei posti di specializzazione al concorso nazionale.

Inoltre, gli Stati Uniti stimano 2,6 medici per 1000 abitanti mediamente, l’Europa 5,5 medici per 1000 abitanti e l’Italia 8 medici per 1000 abitanti. Pertanto la forza lavoro nel sistema sanitario americano deriva da infermieri e altre numerose figure professionali, molto più autonome: prescrivono farmaci, seguono i pazienti in loro ambulatori privati ed in reparto, esiste una supervisione medica parziale. Di fatto l’associazione dei medici è una lobby. Alcuni affermano che la chiusura a medici stranieri già formati sia dovuta a questioni medico-legali, in un Paese in cui i contenziosi sono quotidiani e la medicina difensiva ha la sua più alta espressione. Sarà anche questo un fattore, non metto in dubbio, ma esistono tante alternative.

In questi due anni negli Stati Uniti ho aiutato per quanto possibile. Sono stata e sono volontaria al Distretto sanitario del Nevada del Sud, sono stata impiegata nei primi mesi della pandemia in un call-center che al tempo costituiva la prima forma di “contact tracing”. Nei mesi successivi ho fatto volontariato nelle postazioni in cui venivano eseguiti sia i tamponi che i vaccini per il Covid-19. Inoltre, ho aiutato nell’ambito sanitario i cittadini italiani in suolo americano tramite il Consolato Italiano. Insomma, non mollo. È vocazione. Si tenta di aiutare gli altri, le persone che hanno bisogno, a prescindere da un pezzo di carta che mi rende abile a lavorare qui negli States. Se non dovessi entrare quest’anno in specializzazione? Vorrà dire che andrò ad aiutare chi ha più bisogno».

                           

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