Martedì, 05 Dicembre 2023 06:29

“Accetta e continua” l’impermanenza buddhista nel nuovo album dei Bachi da pietra In evidenza

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La canzone “Invano” offre sorprendenti rimandi alle filosofie orientali, alla tradizione misterica greca e alla mistica cristiana

” Il regno di Dio è dentro di te è tutto intorno a te… non in templi di legno e pietra. Solleva una pietra ed io ci sarò, spezza un legno e mi troverai”

Dal Vangelo di Tommaso

Di Giulia Bertotto Roma, 4 dicembre 2023 (Quotidianoweb.it) - Cominciamo dal nome del gruppo, un omaggio geniale a insetti simbolici; parodia amara dei bachi da seta, i bachi da pietra sono creature che non tessono materiale pregiato e morbido, ma note ostili come la pietra, aspre come il dolore, come il sonno incosciente del sasso e dure come il rock. Le larve da seta però, sono allevate e sfruttate, mentre i Bachi da pietra sono ribelli al sistema della produzione culturale e dell’industria musicale. Chitarra e batteria, questo il loro esoscheletro per farsi coraggio nel mistero assurdo dell’esistenza.

Invano, la capacità camaleontica della vita

La canzone Invano, traccia 6 dell’ultimo album “Accetta e continua” è una lode alla fantasia della natura e una nenia di lutto perché, come scrisse Leopardi “Tutto è nulla, solido nulla”. Tre minuti e 34 secondi di gratitudine e repulsione per la capacità camaleontica e mostruosa della vita di assumere le più colorate e bizzarre sembianze; di farsi foglia, insetto, albero, donna e uomo. Gratitudine e meraviglia per il miracolo trasformista, repulsione poiché nessun essere vivente ha alcuna possibilità di piena affermazione; subisce il nascere, sopporta il vivere e incassa il perire.

Il testo del brano:

Sotto forma / di foglia / sotto forma di soglia / sotto forma di fiato / sotto forma di fulcro / sotto forma di fato / sotto forma di fica / sotto forma di vita / sotto forma di ombra / sotto forma incerta / ma sotto forma / dissolta / ma sotto forma / dispersa / sotto forma di mela / sotto forma di pesca / sotto forma di sogno / sotto forma di fieno / sotto forma di cielo / sereno / sotto forma di grano / ma sotto forma / invano / invano / invano / invano[1]

La musicalità ridondante di “Invano” sembra davvero suggerire la trasformazione di quell’unica energia, il medesimo Archè per i presocratici, essenza trascendente che si fa immanente “sotto forma di melo sotto forma di fiato, sotto forma di fica sottoforma di vita…sotto forma dissolta”. Ecco il miracolo dell’Incarnazione, ciò che è Altro dal cosmo che si fa cosmo, nebulosa, buco nero, falena, balena. Ma è invano, perché come non era, poi non sarà più. Così amministra il Fato.

Questo brano è una celebrazione della vita e insieme un pianto funebre per la provvisorietà di ciascuno di noi; inno dolente all’impermanenza buddhista, canta il concetto di vanità nella tradizione ebraica, il quale solo superficialmente significa eccessiva attenzione alla propria bellezza. Il senso profondo dell’espressione vanità è l’idolatria, ossia scambiare la forma caduca ed effimera del corpo con l’anima profonda, invisibile di esso. È il peccato dei peccati, invertire l‘interiorità immortale con l’esteriorità mortale, la forma cangiante e caduca con la sostanza eterna.

…Vanità delle vanità, dice Qoèlet,

vanità delle vanità, tutto è vanità.

Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno

per cui fatica sotto il sole?

Una generazione va, una generazione viene

ma la terra resta sempre la stessa[2].

La menzione ai genitali femminili fa riferimento al rapporto tra la fugacità della vita terrena, materiale, e la generazione biologica. Morte e sesso sono legati, difatti scaturiscono dalla rottura metafisica che i cristiani chiamano peccato.

La fugacità del piacere sessuale, dell’orgasmo, è legata a quel rapporto ontologico tra mortalità e sessualità: per mezzo della sessualità si viene al mondo e si è vincolati alla carnalità mortifera che ci rende finiti e destinati al congedo (almeno in questa forma). Niente che duri, niente che conti, nascere per morire, invano. I mistici di ogni religione ripudiano il sesso che ci confina al corpo, “bara dell’anima” per Platone. In origine il sesso non era osteggiato dalle religioni per qualche mania punitiva e di controllo psico-sociale, ma perché la potenza di Eros distoglie dall’unica vera forza creatrice e fonte di Amore incondizionato e autentico, il Divino.

I Pidocchi di Omero

Ne La nascita della filosofia Colli racconta della morte di Omero[3] come tramandata secondo Aristotele, a causa di un enigma irrisolto. La divinità parla per allusioni, enigmi e il sapiente deve coglierli, pena la sua morte simbolica. Così Omero morì perché non riuscì a comprendere il messaggio metafisico nella frase di un gruppo di pescatori: “Quanto abbiamo preso l’abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo”. Non si dovrebbe lasciare ciò che non è stato preso e portare ciò che invece è stato preso? I pescatori, che quel giorno non avevano pescato e se ne stavano a grattarsi la testa, si riferivano ai pidocchi (artropodi anch’essi!) che non avevano preso e schiacciato nelle loro mani e quindi li portavano ancora con sé. La futilità dell’indovinello è solo apparente: ciò che non viene preso dall’uomo è ciò che non è manifesto ma che in verità è ciò che è davvero reale, l’anima viva sottostante alle cose, lo Spirito; mentre ciò che viene preso è ciò che è non è davvero reale ma che noi consideriamo ontologicamente rilevante, come il corpo, i vestiti, la casa, la forma “di melo o di fica”. Per questo Paolo di Tarso esorta a vivere come se non fosse, chi ha moglie come non la avesse, chi ha casa come se non la possedesse.

Questo mondo è davvero una grande circo delle pulci, un velo di Maya di ragnatele fittissime.

Hölderlin, Renoir, ed Eckhart, esperienze mistiche e insetti

Come non pensare a questa intensa esperienza mistica di F. Hölderlin che si commuoveva guardando un insetto in un innaffiatoio?

“Sotto un noce, un annaffiatoio pieno a metà, dimenticato da un garzone giardiniere, e questo annaffiatoio, e l’acqua  che esso contiene, resa cupa dall’ombra dell’albero, e un insetto che remiga sullo specchio di quest’acqua da una sponda oscura all’altra, che questo insieme di cose insignificanti mi trapassi di un fremito per la presenza dell’infinito, mi faccia rabbrividire dalle radici dei capelli fino al midollo, così che dovrei uscire in parole di cui io solo che, se le trovassi, richiamerebbero sulla terra quei cherubini, ai quali non credo (...). In tali momenti una qualsiasi creatura insignificante, un cane, un topo, un insetto, un melo intristito, una carrareccia che si snoda sulla collina, una pietra muscosa, vengono a significare per me assai più dell’amante più bella (…) queste creature mute, talvolta inanimate, si levano verso di me con una tale pienezza, una tale presenza d’amore, che il mio occhio letificato non riesce a scorgere d’attorno nulla che sia morto”[4].

Un’umile creatura come un lombrico apre alle più magnifiche vette mistiche, umile viene infatti da humus, terra; la terra dà lo slancio verso il Cielo. La natura aspira e ispira al soprannaturale. Del resto, il verme è un simbolo perfetto di Dio, non fiero come il leone, ma inerme e viscerale nel suolo umido, secondo lo pseudo Dionigi l’Areopagita, e da un verme rinasce ciclicamente l’ignea Fenice.

“Se trascorressi abbastanza tempo con le più piccole creature - anche un lombrico - Io non ne avrei mai per preparare un sermone, tanto è piena di Dio ogni creatura” scriveva il mistico renato Eckhart nel Trecento: alcuni dei suoi meravigliosi scritti furono tacciati di eresia. E ancora Simone Weil, non certo una mente panteista, anzi, sempre tendente alla trascendenza inaccessibile: “Mi sembra duro pensare che il rumore del vento tra le foglie non sia un oracolo; duro pensare che questo animale, mio fratello, non abbia anima; duro pensare che il coro delle stelle nei cieli non canti le lodi dell'Eterno”.

Chi ricorda quella scena di “Una gita in campagna”, quando la giovane protagonista confidava alla mamma di provare un senso panico di dolcissima gioia e disperazione tragica per un bruco e per ogni bestiolina del prato[5]?

Giordano Bruno: la forma solve et coagula, la Vita resta

Nella discografia degli irriverenti artropodi troviamo quel nichilismo mistico di origine orientale ma di cui a ben vedere è intrisa anche la filosofia occidentale, nonché quel dualismo eretico di matrice gnostica espresso già dai Bachi nel brano “Bestemmio l’Universo”, protesta cosmica di uno scarabeo stercorario, che imputa al demiurgo una creazione troppo complicata, faticosa mentre lui l’avrebbe fatta “più commerciale e più easy”[6]. Ricorda l’ironia di Schopenhauer, quando scrive che la vita è un fatto spiacevole e lui si è proposto di passare il suo tempo a rifletterci sopra. Non ha detto che la vita è un orrore inconsolabile o un incubo claustrofobico[7], ma un fatto spiacevole, come la pizza fredda e la birra calda. In fondo non ha importanza, Invano.

Invano menziona anche la dissoluzione: la mela che dal seme si espande e nella muffa si accartoccia per la decomposizione. Giordano Bruno, il panenteista scandaloso, ci istruisce su questo processo di coagulazione e dissolvimento, che a noi sembra il nascere e il morire. L’esistenza nel divenire è risultato della dualità, della legge degli opposti.

La coagulazione regna nel segno di Amore, dissolvimento dell’Odio. Empedocle insegnava che le forze cosmiche Amore e Odio, potenza rispettivamente centripeta e centrifuga, danno luogo all’apparenza di nascita e morte, ossia dissolvimento e coagulazione. Mai si nasce del tutto, mai si muore davvero, ma una sola vita sempre si trasforma.

“Sotto forma di foglia, sotto forma di soglia”. La morte non è che una porta, che conduce altrove[8]. Esistere Invano, cioè nella finitezza, è paradossalmente proprio la garanzia ontologica che la vita mai si esaurirà, ecco la Buona Novella entomologica dei Bachi. La vera illusione è quella di soffrire perché tutto è temporaneo e limitato, quando la vita non può che essere sconfinata ed eterna. Dell’Apocalisse è questa la Rivelazione.

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[1] Link alla canzone: https://youtu.be/COLOhW11u60?si=hooWEQy54LI36n8z

[2] “So solo che chi è stato è stato e chi è stato non è, chi c’è -c’è- e chi non c’è non c’è…” Canta G. Lindo Ferretti nella canzone “A tratti” dei C.S. I.

[3] G. Colli, “La nascita della filosofia”, Adelphi 1975, pp-61-65.

[4] F. Hölderlin, Fondamento dell’Empedocle, in Sul Tragico, Feltrinelli 1980, pp. 38-39.

[5] “Une partie de Campagne”, J. Renoir, 1936.

[6] Sulle stesse tematiche ma non con la stessa ironia anche il brano “Di che razza siamo noi”, in cui l’uomo sembra davvero la prova di una creazione demiurgica oscena, una “malevola covata schiusa per controtendenza”.

[7] “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla” scrisse il poeta nello Zibaldone di pensieri.

[8] “La morte non è niente, io sono solo andato nella stanza accanto. Io sono io”, così la poesia La Stanza Accanto di Henry Scott Holland.