Il meccanismo del payback sanitario, introdotto dal governo Renzi con l’intento di correggere gli errori di gestione e programmazione della spesa pubblica in ambito sanitario, si sta rivelando un onere insostenibile per le imprese fornitrici di attrezzature biomedicali.
Si tratta, di fatto, di una legge Caronte "traghetta debito" che grava esclusivamente su una parte ben definita del sistema: le aziende che riforniscono ospedali e strutture sanitarie.
Ogni giorno, gli ospedali italiani utilizzano dispositivi medico-sanitari fondamentali per diagnosi, terapie e interventi salvavita. Ma cosa succederebbe se, da un giorno all’altro, questi strumenti venissero a mancare?
L’imposizione di un meccanismo di ripianamento del deficit sanitario attraverso il payback rischia di generare una crisi senza precedenti nel settore, con conseguenze devastanti non solo per le aziende coinvolte, ma per l’intero sistema sanitario nazionale e, soprattutto, per i pazienti.
Il payback prevede che le aziende fornitrici di dispositivi medici debbano restituire una parte delle somme spese dalle Regioni che hanno sforato i tetti di spesa sanitaria. In altre parole, si chiede alle imprese di pagare per colpe non loro, costringendole a restituire denaro anche in misura superiore ai margini di guadagno effettivi. Questo significa mettere a repentaglio la sopravvivenza di oltre 2000 piccole e medie imprese del settore e la stabilità di circa 200mila posti di lavoro.
Il risultato? Un sistema meno competitivo, con un’offerta più limitata e prezzi in crescita per il Servizio Sanitario Nazionale, ma soprattutto chi potrà curarsi?
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta sulla questione, riconoscendo le criticità della misura in relazione alla tutela delle imprese, ma confermando la sua legittimità sulla base del principio che l’iniziativa economica privata debba avere un’utilità sociale. Tradotto: le aziende del settore biomedicale devono contribuire alla sostenibilità del sistema sanitario, anche a costo di compromettere la propria esistenza, se questa non è follia, come la dovremmo chiamare?
Ma può davvero uno Stato chiedere alle proprie imprese di pagare più di quanto guadagnano?
Questo non è altro che un vero e proprio esproprio mascherato da misura di solidarietà. Il principio di economicità viene completamente calpestato, costringendo aziende private a coprire buchi di bilancio generati da una gestione inefficiente della sanità pubblica. Se un’impresa non è più in grado di operare perché deve restituire più di quanto incassa, il risultato è il fallimento. Chi ne pagherà le conseguenze? I lavoratori, i pazienti, l’intero sistema sanitario che si ritroverà senza forniture essenziali.
Un Paese che impone un tributo insostenibile alle sue imprese, invece di creare condizioni favorevoli per il loro sviluppo, sta scegliendo una strada pericolosa. Si rischia, o forse è proprio questo che il legislatore vorrebbe, di spianare la strada del monopolio ai colossi del settore, che potranno permettersi di resistere, mentre le PMI verranno spazzate via. Una concorrenza sleale di fatto istituzionalizzata, che altererebbe per sempre l’equilibrio di un comparto cruciale per la salute pubblica.
Se la situazione non verrà affrontata con una revisione urgente del meccanismo di payback, il rischio sarà quello che molte aziende saranno costrette a chiudere o a ritirarsi dal mercato italiano. Con quali conseguenze? Ospedali senza forniture adeguate, allungamento delle liste d’attesa per esami e interventi, e un ulteriore deterioramento della qualità dell’assistenza sanitaria.
Il paradosso è evidente: una misura che è molto difficile pensare che sia stata generata per garantire la sostenibilità del sistema sanitario, perché era ed è evidente che rischia di produrre l’effetto opposto, compromettendo la qualità e la continuità dell’assistenza.
È davvero questa la strada giusta per un Paese che vuole garantire il diritto costituzionale alla salute dei suoi cittadini?