Sabato, 16 Marzo 2024 10:03

“Lavoro migrante” - Dipendenza da lavoro. Just in time. In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Di Francesca Dallatana Parma, 16 marzo 2024 - Veste la faccia gialla.  Quella dei nikkei, come li chiamano in America Latina. Da loro ha preso i tratti somatici.  Nonostante il passaporto peruviano. Lui.

Di lei, si dice che lo abbia sposato per vivere in Giappone. Dove si guadagna in modo esponenziale rispetto a Lima. Dove si lavora senza alzare la testa. E senza parlare.

Lima, Tokyo: due metropoli alveare di stile diverso per socialità e per modello economico. Prezzi alle stelle e lavoro pagato poco e male in Perù, in città sudate e generose di relazione e di cicaleccio. Mentre Tokyo sfoggia dagli anni Ottanta l’efficienza del modello giapponese. Un osservato speciale dall’Occidente.

Lui si è ricordato delle radici giapponesi. Erano sbiadite nell’incontro con la cultura quechua.  Perché sono arrivati da tempo i giapponesi in Perù. Ed erano in tanti. Così tanti da diventare la seconda comunità nipponica dell’America latina dopo quella del Brasile.

Quando se ne sono andati via, lei faceva la contabile ed era dipendente di un’agenzia viaggi.  Lo aveva assecondato. Dai numeri aveva intuito che cosa stava accadendo. Prima dell’agenzia viaggi le era capitato di lavorare in un’azienda di fondi collettivi. La povertà si stava rovesciando sul Paese. Una valanga di rifiuti scaricata su una massa inerme di persone alle quali rimaneva solo il disperato calore della relazione fra esseri umani.

Poco prima del Fujicrack, negli ultimi anni Novanta, si erano allontanati dalla voragine economica miglia e miglia di mare, di terra e di cielo. Trenta ore di volo. Le sirene della produzione snella avevano riverberato una eco forte fino al Perù. Delle fabbriche giapponesi a migliaia di chilometri di distanza si sapeva che si guadagnava di più: ritmi alti, molto denaro.  Intanto azioni, politica e idee del Presidente Fujimori avevano inginocchiato il Paese. L’auto-golpe del giapponese al comando aveva spinto nel baratro l’economia peruviana, lacerato i rapporti comunitari. Fujimori era di discendenza migrante ravvicinata nel tempo.

Il risentimento dei migranti è un fuoco che non si spegne. Lavora con tenacia perenne. Sul punto di esplodere, sempre costretto sotto una pellicola fragile come un guscio d’uovo.  Vittima del risentimento migrante, anche lui, il Presidente. Forse è così. Molti dittatori sulla carta geografica della Storia hanno subito il risentimento migrante. E lo hanno trasformato in ferocia. E il fuoco lento del risentimento ha sprigionato un incendio.

Lui e lei: lui, nikkei; lei, quechua. Vent’anni. Due giovani già molto grandi per le periferie sudamericane. E loro abitano ai margini dell’alveare: nei sobborghi dell’aeroporto di Lima.

Si sono conosciuti nella terra di nessuno degli outsider. Uniti dalla solidarietà al ribasso della difesa.

Quando se ne sono andati via, nessuno dei due aveva dimenticato le discriminazioni e la fatica vissute dalle famiglie d’origine.

La memoria dell’offesa passa geneticamente di generazione in generazione. Non ha bisogno di parole. E’ una dannazione e insieme un anticorpo a scudo della sopravvivenza.

Lui temeva che le follie del Presidente, una volta sprofondate nell’abisso insieme al Paese, lo avrebbero costretto ai confini dell’accettazione sociale. Ancora e sempre di più e come accadeva da decenni.

Per lui la migrazione in Giappone non era una condanna. Ma un ritorno.

Per lei, quechua, era un viaggio verso una terra nuova. Una possibilità di salvezza dalla politica di sterilizzazione che il Presidente nippo-peruviano avrebbe riservato soprattutto alle donne quechua negli anni successivi alla loro partenza. La mente aveva sfiorato il brivido dell’intuizione.  La ragione li aveva spinti via senza lasciarsi intrattenere dalle lacrime della commozione.

Il richiamo territoriale di lui aveva affondato le unghie nel mantello viscoso della terra. Aveva intuito movimenti latenti che avrebbero sprigionato un’esplosione di cocci di bottiglia. Una tempesta sociale capace di macellare nel sangue quelli già feriti dalle discriminazioni.

Da sempre si sentivano esclusi a casa loro. Discriminati, nonostante lingua e cittadinanza.

Il volo aveva restituito loro la parola, nonostante la barriera della lingua.

Tokyo è malata di gigantismo. Una megalopoli nella quale è facile perdersi. L’agenzia di viaggi di Lima, i contatti, le poche informazioni messe insieme, avevano consentito di avere i permessi. E il lavoro nel gigante urbano nel quale erano finiti era arrivato subito.

Loro due, insieme, sullo stesso autobus verso la fabbrica.

Lui riprende possesso della lingua in poco tempo ma con fatica. Si parlava giapponese a casa sua, quando era un bambino. Lei nuota sott’acqua e con regolarità e di tanto in tanto porta gli occhi in superficie: una parola dietro l’altra mette insieme una lingua da sopravvivenza.

Si parla poco. Testa bassa e lavoro. Nessuno crede che un bianco e un’olivastra possano parlare quella lingua.

Nella stessa fabbrica lavano e stirano lenzuola e vestiti a valanga, biancheria ospedaliera e delle mense: gli abiti dei luoghi di comunità. Svestono e rivestono il gigante urbano, ogni giorno. Un gruppo di operai senza parole, con braccia e gambe che si spostano e si muovono più regolari di un robot.

Il lavoro è tempo e azione. L’efficienza dipende dalla precisione, dall’attenzione.

Lavorare, mangiare, dormire. Poche parole. Niente svago.

Da Lima si sono spostati a Tokyo per lavorare. Non è una vacanza. Al lavoro non si parla.

In lavanderia sono riservati agli uomini i lavori più pesanti. Macchine grosse e ingombranti per stirare gli appezzamenti di tessuto, le distese di biancheria per le comunità. Alle donne va un po’ meglio ma il ritmo anche per loro è alto. Rumore e chimica rendono asettica qualsiasi relazione fra i corpi. Odori forti anestetizzano sul nascere i serpenti di parole. Che potrebbero distrarre dal lavoro. Un caldo umido si alterna a un caldo secco, di reparto in reparto: piazze d’armi di spazio ampio e di altezze verticali oltre il limite dello sguardo.

Il tempo libero costa. Una sbronza di denaro. I sudamericani si sono trasferiti per mettersi al riparo economicamente. Vivono nella stanza ristretta del loro spazio privato ed escono solo per lavorare.

Uno, due, tre, quattro anni. Dormire e mangiare e lavorare. Fino a una vacanza costosa negli Stati Uniti. Un incontro familiare programmato nella parte ricca del Paese. Trenta giorni di vacanza per un viaggio lungo con tante ore di volo.

Il lavoro è una droga. Dopo due giorni di passeggio per le strade di Boston sono già in astinenza. Non parlano la lingua ma cercano un lavoro per il mese che resta fino alla fine della vacanza. Cercano e trovano.

Un lavoratore trova sempre un arruolamento, una fabbrica senza soldati.

Un pullman, anche qui. Ancora insieme, lui e lei. Fino alle linee di confezionamento delle creme, degli shampoo, dei prodotti per il corpo. L’odore è nauseante anche qui. Ma il naso si abitua presto. E i corpi riprendono vigore nella routine dei ritmi di lavoro, dell’alternarsi dei turni. Due mesi di lavoro in un gruppo senza comunicazione e senza relazione: ciascuno parla una lingua diversa: lo spagnolo è la lingua più conosciuta: neri, bianchi, gialli, quechua. Tutto il mondo intorno alle scatole e ai flaconi destinati ai supermercati di questo brand.

Loro, che vengono dal Paese dei Tupac Amaru, sentono di appartenere al lavoro. Al lavoro di fabbrica, al ritmo che obbliga a cadenzare il tempo in otto e otto e otto ore. Senza lavoro sono perduti. Senza identità.

Ostaggi impotenti del risentimento migrante.

Migrare significa cambiare scenario di sottofondo e, nel tempo del primo movimento, sentire una musica diversa. Le macchine delle fabbriche fanno un rumore diverso nel primo periodo di conoscenza.

La fatica di fabbrica seda il risentimento migrante.

Due mesi di lavoro americano servono per coprire le spese dei biglietti dal Giappone agli Stati Uniti. E per pagarne altri.

Un altro viaggio. Verso il cognato del nikkei. In Italia.  Questa volta, per andare al mare per davvero. Riposare, visitare le città, perdere tempo seduti al bar.

L’Italia è calda e lenta. L’Italia rallenta i corpi e obnubila la mente.

Strade larghe un braccio, edifici bassi anche quando sono grattacieli, distanze percorribili a piedi, da parte a parte delle città, ad eccezione di quelle poche che scimmiottano le grandi capitali del mondo.

Tutto il resto è tragicamente lento. Quasi eterno. Una lunga attesa senza tempo nella quale niente cambia.

Se non il tempo, che comunque passa.

Lui si stanca dell’attesa ma apprezza il respiro lento. Cerca e trova un lavoro. Lei si arrende all’astinenza e cerca e trova un lavoro. Il nikkei e la quechua si sentono presenti nel mondo solo se fanno.

Fare significa lavorare. Lavorare significa liberarsi dal risentimento e riscattare il passato.

Una fabbrica di pizze surgelate, fuori e dentro dalle celle frigorifere a meno cinque gradi a temperatura costante. Lo stipendio è basso rispetto al Giappone e agli Stati Uniti, ma è sufficiente per vivere qui a ritmo lento. Per questo tipo di lavoro ci sono solo migranti. Nessuno di loro parla la lingua italiana. Nessuno ha capito il contratto al momento della firma. Assumono soprattutto migranti per questo lavoro.

Il nikkei e la quechua, a testa bassa sui nastri e fuori e dentro dalle celle frigorifere. Come robot. Sono lavoratori produttivi.

Schiavi del lavoro. Non dei padroni.

Prigionieri di un’ossessione. Del lavoro che rende liberi.

Tokyio_cityscapes.jpg

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(Link rubrica: lavoro migrante  https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30 )