Sabato, 02 Marzo 2024 08:04

“Lavoro migrante” Questione d’onore. Past life. In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Di Francesca Dallatana Parma 2 marzo 2024 - In galera manca lo spazio. Nel buco il tempo è un nemico.

Al suo Paese gli hanno preso la terra. Rubata, venduta. In Italia, intorno a un tavolo rettangolare con tante persone, il tempo è poco per dire perché si è qui e il lavoro fatto in Africa.

Il lavoro per lui è stato una fuga. Lui ha lavorato per andarsene. Soprattutto dall’ultimo Paese. Dove ha chiesto al padrone di dargli soldi. Subito. Per attraversare il confine, per sfidare il mare.

A scatti si aggira per il reparto, nel bianco del camice e dei pantaloni.  Che gli tingono il viso di un nero ancora più nero. La cuffia è un’aureola intorno alla testa. Lavora qui da anni, sui rulli che trascinano silenziosi le bottiglie in fila fino ai bancali avvolti nel film di plastica trasparente. Il ciclo di lavoro va al rallentatore. Il rumore è ovattato. Anche quello dei passi sul pavimento e su e giù per le scale di metallo dei macchinari. Il lavoro continua. E gli sembra strano. Nessuno lo ha mandato via.

In Africa ha lavorato a più riprese. Nel suo Paese, poi in Mali, poi in Libia. Dopo un certo tempo succedeva sempre qualcosa e doveva andarsene. Scappare via. Quando non era più possibile resistere. Nel Paese d’origine aveva un lavoro. Lo stesso che gli ha permesso di sopravvivere in Mali, in Algeria, poi in Libia.

Faceva il piastrellista. Lo aveva imparato da sua padre, prima che lo accoltellassero due strade più in là della loro abitazione. Morto lui era finita la protezione sociale della figura maschile. E uno zio aveva potuto fare di loro tutto ciò che voleva. Senza rendersene conto.  O forse sì.

La terra. Si era preso la terra. Per prima cosa aveva preteso il documento di proprietà.  L’imam aveva suggerito alla madre di consegnarlo al cognato. Una donna non può avere possesso di un documento così importante. E lo zio aveva venduto la terra. Tenendo per sé il profitto.

In casa era montata la rabbia. Lui era solo un ragazzo, ma già grande per capire che la sua famiglia aveva subito un torto. Una questione d’onore.  Lo aveva chiamato per parlare. Il vecchio non aveva ascoltato ma solo parlato. E il ragazzo si era lasciato trascinare sulla strada da un livore profondo. Lo sconforto gli aveva dato alla testa, gli aveva preso la mano, costretto il pugno intorno a un cacciavite calcato sul battistrada delle gomme dell’auto, sbattuto a più riprese sulle portiere, inflitto la punta sul cruscotto e sui vetri laterali. Poi si era scagliato su di lui, sullo zio. Aveva cercato di colpirlo al volto, al petto. Avrebbe voluto ucciderlo. E fare risorgere il padre dalle sue ceneri. Lo zio lo aveva fatto arrestare.

A distanza di anni, teme sempre di essere braccato dai miliziani del suo Paese e trascinato in cella, nel buio della galera. Di sentire il tonfo sordo nei timpani delle bastonate sulla pianta dei piedi, sul palmo delle mani.

Cammina lento e sicuro per il reparto. Non ha sempre camminato così. All’inizio si aggirava tra i nastri trasportatori in modo incerto come se dovesse nascondersi. Ogni volta che gli capitava di avere le mani libere oppure di osservare e controllare, da fermo, una macchina in movimento temeva di essere cacciato.

Nelle orecchie sente ancora le urla dei carcerieri libici e di quelli del suo Paese. Sono arrivate fin qui, anche se gli altri lavoratori non le sentono. Si spostano con lui. Dovunque lui sia andato il rumore delle galere africane lo ha seguito. La terra sabbiosa dentro le scarpe, la sensazione di caldo sudato sotto i piedi è rimasta intrappolata nello strato profondo della pelle. Non c’è sonno capace di assolverlo da quella dannazione. Non c’è sapone che possa rendergli la sensazione di pulito e di riposo.

La tortura ti sporca dentro.

Sente le voci a intermittenza. Da allora. Dopo la galera, dopo che sua madre è riuscita a farlo liberare se ne è andato nel Paese confinante. Dove ha fatto il piastrellista e da dove se ne è andato per mancanza di lavoro. Verso l’Algeria, il rapimento da parte dei tuareg, poi un incontro che gli ha permesso di sopravvivere in Libia. Lavoro di dieci, dodici ore al giorno come muratore. In schiavitù.

Qui si lavora in silenzio. All’inizio temeva di parlare più che di sbagliare. In Libia non si parlava. Si lavorava e basta. Qui tutto gira lentamente. Le bottiglie hanno una forma strana, spigolosa, triangolare e rotonda. La velocità è costante ma ridotta. La tensione è alta perché un carico frantumato è uno spreco di tempo prima che di denaro.

Controlla le macchine, l’attenzione per la programmazione della velocità e per le operazioni di etichettamento e della tappatura e di serraggio ricacciano indietro le voci. Non beve alcolici. Ma gli alcolici che gli passano davanti hanno ubriacato le voci dentro il cervello e non permettono loro di urlare forte.

Prima ha imparato a parlare, poi a lavorare. Non si lavora se non si dicono gli errori. La cultura dell’errore è il contrario di quello che succedeva dall’altra parte del mare. In Libia non si poteva sbagliare. Qui bisogna dire quando si sbaglia. Da una serie di errori fatti con regolarità da uno stesso operaio hanno capito che si doveva rendere più sicura una macchina. Da allora tutto è più silenzioso, gli operai più silenziosi e più attenti.

Ha imparato a parlare. Dice poco ma quando vede dice subito. Il lavoro è cominciato per lui quando ha preso a parlare, a dire che cosa non funzionava. Sono poche le cose che non girano nella fabbrica.

Uno strano modo di lavorare, nei primi giorni. Gli era sembrato. Pensava di non avere capito bene in italiano. Si aggirava sospettoso per i nastri trasportatori senza capire perché ci fossero così pochi operai in un turno. Senza rendersi conto a che cosa servano i piccoli gruppi di persone in un reparto dove fanno tutto le macchine. E dove le bottiglie non fanno rumore neanche quando cadono, si rompono, sbattono l’una contro l’altra. E’ un lavoro di fatica cerebrale, di controllo. Gli fa male la testa alla fine del turno. Ma le voci si sono calmate, anche se sono sempre pronte a ricacciarlo agli inferi.

Alle voci ha imparato a non dare ascolto. Dare loro retta significherebbe partire per un viaggio senza ritorno. Invece lui vuole stare ancorato alla realtà. E non c’è niente di più concreto di un lavoro, di una fabbrica che produce una merce da vendere sugli scaffali del supermercato. Di uno stipendio. Ma soprattutto della cadenza quotidiana delle otto ore di lavoro.

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Otto, otto, otto.

Andata e ritorno e di nuovo andata.

Vive solo, in città. Ha acquistato un’auto usata. E un collega lo ha accompagnato in un’agenzia immobiliare per la casa. L’ha trovata. Piccola, a venti chilometri di distanza dalla fabbrica. Potrebbero viverci anche la madre e la sorella. Le inviterà presto.

Ma prima deve imbavagliare ancora più forte le voci.

Non accetta di essere suddito di un passato traditore.

Ha trafitto le voci con il coltello della ragione, per la prima volta, in occasione del colloquio di gruppo. Una giovane donna, con i capelli neri e il naso aquilino, ha chiesto a tutti i presenti intorno al tavolo rettangolare di dire le loro aspirazioni per un futuro in Italia. Quello che fra loro parlava meglio l’italiano le aveva detto con decisione di avere fatto il piastrellista in Africa. La voce in quel momento ha esultato. Lui ha guardato la faccia della donna e ha pensato che la voce lo stava trascinando di nuovo negli abissi africani. Ha abbassato gli occhi e non ha parlato. La donna ha pensato: questo è molto timido; è giovane; ha paura.

L’africano ha continuato. Io so lavorare, ha detto. Trovami lavoro come piastrellista. Lei, gentile, gli ha detto che in quel momento stava cercando operai per una fabbrica. E lui, ancora: io sono un piastrellista. Era invasato dalle voci.

La donna ha scelto chi le era sembrato più equilibrato. Dalla timidezza può nascere un fiore. Dalla prepotenza: un problema è in agguato.

E’ così che si è trovato davanti alle bottiglie. Aveva paura di tutto, nei primi giorni. Del vetro. Degli alcolici che tolgono gli odori agli ambienti.

La voce continuava a indurlo in distrazione. Ha imparato a concentrarsi sul tempo. A osservare lo spazio ridotto dello spostamento delle bottiglie sui rulli. A controllare tenuta e precisione della tappatura. La regolarità della filettatura. Usa il calibro come se fosse un termometro. Con la stessa delicatezza.

Le voci parlano a volume basso, ma continuano a chiamarlo. Hanno continuato a disturbare.

Il lavoro ha sedato le voci.  Non le ha uccise. Una nuova vita è cominciata in Italia, nel reparto asettico come una clinica svizzera. Ma l’Africa non se ne è andata.

Il piastrellista, conosciuto al colloquio di lavoro, ha continuato a dire di volere fare il piastrellista. Un’ossessione. Che gli ha scosso il corpo fino in fondo alle viscere. E’ finito all’ospedale dove lo hanno messo nella galera del reparto diagnosi e cura.

Lo spazio è ristretto all’ospedale, le porte chiuse a chiave. Una dietro l’altra. Come in galera.

Quando ha saputo, anche lui ha temuto di non vedere più le bottiglie passare sul nastro del suo tempo.

Mustafà lavora come operaio in un’azienda emiliana produttrice di spirits.

Ha sedato le voci africane in agguato. Con la chimica prescritta da un medico psichiatra del Centro di salute mentale. Ha affrancato la madre e la sorella dalla sudditanza del parente usurpatore. Vivono con lui, adesso.

Sopravvivenza d’onore.

 

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