Infatti, questi cambiamenti hanno generato nuovi rischi sociali, sfidando le capacità dei governi di garantire adeguate tutele e di adattarsi a un contesto in continua evoluzione.
La crisi del welfare state si manifesta inizialmente come un problema di sostenibilità finanziaria. Dal rallentamento economico degli anni Settanta alla crisi del debito sovrano della fine degli anni Duemila, passando per le politiche di austerità, i governi perdendo la loro sovranità, si sono trovati costretti a gestire vincoli sempre più stringenti sulla spesa pubblica. La globalizzazione, con la delocalizzazione delle imprese e la concorrenza fiscale internazionale, ha ulteriormente limitato le risorse disponibili.
A complicare il quadro, il predominio delle politiche neoliberiste, affermatesi con forza negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ha spinto verso un drastico ridimensionamento dell’intervento pubblico. Il taglio delle tasse, in Italia ricordiamoci l’austerity di Mario Monti, simbolo della filosofia reaganiana di “affamare la bestia” del welfare, ha ridotto ulteriormente la capacità dello Stato di rispondere alle esigenze sociali.
La crescita del settore dei servizi, caratterizzato da occupazioni precarie, basse qualifiche e salari insufficienti, ha reso obsolete le tradizionali tutele pensate per lavoratori stabili e ben retribuiti. Questo ha portato a un aumento delle disuguaglianze e della povertà, che oggi colpisce non solo le fasce più vulnerabili, ma anche giovani, famiglie con figli e lavoratori con contratti fragili.
Un altro importante cambiamento riguarda la relazione tra famiglia e lavoro. L’aumento dell’occupazione femminile, spinto da necessità economiche e dal desiderio di maggiore indipendenza, ha alterato da tempo l’equilibrio tradizionale del modello fordista, dove il lavoro di casa era delegato alle donne.
Le famiglie si trovano ora a fronteggiare difficoltà crescenti, aggravate da legami più fragili e dall’aumento di nuclei monoparentali, spesso in condizioni di povertà.
L’invecchiamento demografico pone ulteriori pressioni sul welfare. Da un lato, cresce la domanda di pensioni, con il rischio di conflitti intergenerazionali per la ripartizione delle risorse. Dall’altro, aumentano i bisogni di assistenza per la non autosufficienza e la sanità, che richiedono risposte innovative e sostenibili per evitare che l’accesso alle cure diventi un ulteriore terreno di disuguaglianza.
Ci sono poi le politiche d’immigrazione che aggiungono un ulteriore elemento di complessità e come vediamo nelle nostre città anche di degrado.
Le politiche di integrazione, che interessano ambiti come l’istruzione e l’abitazione, spesso si scontrano con le limitate risorse disponibili, alimentando tensioni tra popolazione autoctona e immigrati, specialmente in politiche basate sulla prova dei mezzi.
Guardando al futuro, le transizioni tecnologica ed ecologica non solo stanno manifestando tutta la loro inutile ideologia, ma hanno profilato nuove fonti di rischio.
Non manca anche la narrazione dei cambiamenti climatici che sta polarizzando ulteriormente il mercato del lavoro, impoverendo il ceto medio e ampliando la fascia di lavoratori vulnerabili. Per contrastare questi “effetti”, sarà necessario tornare ad un confronto vero e reale e non al racconto dei politicanti finanziati dalle lobby progressiste, che stanno scricchiolando in ogni parte del mondo perdendo terreno.
È obbligatorio oggi come oggi che i sistemi di welfare debbano evolversi. Politiche innovative, come il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, l’ampliamento dei servizi di cura e l’integrazione del reddito per i lavoratori a basso salario, sono imprescindibili.
Solo un welfare flessibile e inclusivo potrà affrontare le sfide di un mondo in trasformazione, garantendo coesione sociale e riducendo le disuguaglianze in continua crescita.