Mercoledì, 02 Luglio 2025 06:02

La montagna tradita: l’ordine costituzionale sacrificato sull’altare della tecnocrazia In evidenza

Scritto da Prof. Daniele Trabucco

Di Daniele Trabucco Belluno, 1 luglio 2025 - Il Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne 2021–2027, adottato formalmente dal Governo Meloni nel 2025, si inserisce nel quadro della programmazione settennale dei fondi europei (2021–2027), secondo le previsioni regolamentari dell’Unione Europea in materia di coesione economica, sociale e territoriale.

La scelta del Governo di assumere come riferimento un impianto strategico tardivo, sia rispetto all’inizio del periodo di programmazione sia rispetto all’effettiva esigenza di intervento sui territori specialmente (ma non solo) montani, manifesta un’incapacità strutturale di coniugare la finalità dell’art. 119, comma 5, Cost., che tutela le zone svantaggiate attraverso misure perequative e promozionali, con l’esigenza di tempestività e visione nell’attuazione della coesione territoriale. Ben più rilevante, però, è il contenuto sostanziale del documento. In esso, il Governo Meloni introduce una nozione tecnocratica e adattiva del declino delle aree montane e interne, considerandolo in più passaggi come irreversibile.

Tale valutazione, lungi dall’essere una semplice constatazione empirica, comporta un giudizio di valore che rinuncia al principio costituzionale di eguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2, Cost.) e tradisce una concezione funzionalista del territorio, ove le aree marginali sono tollerate nella misura in cui non intralciano la crescita dei poli centrali. In tal senso, l’abbandono di alcune zone montane si configura non come omissione, bensì come decisione politica strutturale, espressione di un paradigma secondo il quale le politiche pubbliche non devono più ridurre le diseguaglianze, ma governarne le conseguenze.

L’approccio adottato è radicalmente incompatibile con la logica del costituzionalismo materiale, che impone alla Repubblica un’opera attiva di rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, di fatto, limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Esso contrasta, altresì, con una visione classica, di ascendenza aristotelico-tomista, dell’ordinamento giuridico: quella per cui il territorio non è un’entità inerte o meramente amministrabile, bensì uno spazio antropologico nel quale si realizza la dimensione relazionale della persona umana. La montagna, sotto questo profilo, non è un segmento periferico, quanto una forma storica di civiltà, dotata di razionalità propria e di ordinamenti originari, la cui negazione costituisce un attentato alla pluralità ordinata della società politica. In parallelo, il disegno di legge A. S. n. 1054 rubricato "Disposizioni per il riconoscimento e la promozione delle zone montane", presentato su iniziativa governativa e approvato in prima lettura dal Senato della Repubblica nel 2024, si configura come una legge mancante di vera efficacia normativa.

L’articolato risulta privo di una chiara delimitazione soggettiva e oggettiva del concetto di "zona montana", peraltro andando a ledere alcune competenze regionali, con conseguente incertezza applicativa e rischio di frammentazione delle politiche territoriali. Inoltre, il disegno non introduce un effettivo diritto delle comunità montane ad accedere a servizi essenziali (sanità, istruzione, mobilità. Si parla di incentivi alla natalità, di agevolazioni per l'acquisto o la ristrutturazione di immobili montane, ma manca una visione sinottica), né impone reali vincoli programmatici al legislatore o all’Esecutivo. Si tratta, quindi, di una norma di indirizzo priva di cogenza, un esempio emblematico di quella legislazione debole che alimenta la crisi della rappresentanza istituzionale nei territori periferici.

Sul piano filosofico-giuridico, tale impostazione corrisponde a una concezione post-normativa del diritto, nella quale la legge non è più espressione di una ragione ordinante che rende possibile la giustizia, ma si riduce a strumento di coordinamento procedurale e comunicativo.

Questo è esattamente ciò che accade nel caso della "legge sulla montagna": essa nomina la montagna, ma non istituisce alcun diritto effettivo; descrive una realtà sociale in crisi, ma non prescrive un ordine di giustizia in cui tale crisi possa trovare rimedio.

Infine, l’impianto retorico complessivo del Governo Meloni nei confronti delle aree interne tradisce un mutamento profondo del rapporto tra diritto e territorio: la montagna è abbandonata non tanto perché non rilevante economicamente, ma perché non funzionale al modello di sviluppo dominante. È l’idea stessa di sussidiarietà ad essere minata: quella disposizione dell’ordinamento che riconosce priorità ontologica e funzionale alle comunità naturali e locali, e che costituisce il fondamento del pluralismo sociale e istituzionale.

La regressione verso un’idea verticale e centralizzata di gestione delle differenze territoriali, mascherata da neutralità strategica, rappresenta dunque un attacco sistemico al principio di giustizia territoriale. Nel linguaggio dei diritti si celebra il valore delle aree interne; nella pratica giuridica, esse vengono ridotte a zone di contenimento. In questa contraddizione si consuma l’espropriazione simbolica e normativa della montagna, divenuta oggetto di pianificazione, ma non più soggetto di diritto. E ciò configura, sotto il profilo assiologico e costituzionale, una vera e propria rottura dell’ordine giuridico fondato sul bene comune.

(*) Autore

Daniele Trabucco

Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario "san Domenico" di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.

Sito web personale

www.danieletrabucco.it

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