Il cuore del problema non risiede tanto nella tecnicalità della modifica normativa, quanto, piuttosto, nella disinvoltura con cui una simile proposta viene avanzata da soggetti politici che, fino a poco tempo fa, avevano espresso un’opposizione netta al superamento del limite del doppio mandato, evidenziandone il valore di garanzia contro derive iper-presidenzialistiche e forme di consolidamento oligarchico del potere regionale. In tale contesto, l’atteggiamento di Fratelli d’Italia, il partito di maggioranza relativa, appare emblematico di una più ampia crisi della coerenza politica. La transizione da una postura dichiaratamente contraria a qualsiasi ipotesi di terzo mandato a una disponibilità, seppur cauta, all’apertura del dibattito parlamentare, tradisce un’ambivalenza che non può essere liquidata come semplice realismo politico. Essa sembra rivelare un cedimento ai potentati locali, la cui influenza si è venuta consolidando in anni di governo personale e spesso "carismatico" del territorio.
Figure come Luca Zaia e Vincenzo De Luca, pur afferenti a tradizioni politiche differenti, si sono poste al centro di un consenso elettorale talmente ampio (seppure nel merito immeritato, in quanto più frutto di un elettorato delle "pance" che di un pensiero politico alto) da costituire un riferimento identitario autonomo rispetto ai partiti di appartenenza.
La tentazione di prolungare l’investitura popolare, utilizzando la leva della modifica legislativa nazionale, si inserisce in un quadro di crescente torsione della forma di governo regionale verso un modello plebiscitario e leaderistico.
Tale trasformazione, lungi dal rafforzare la qualità della democrazia, ne svuota progressivamente l’anima deliberativa. Il limite dei mandati non è una restrizione arbitraria, ma una misura di equilibrio, di prudenza, volta a prevenire la cristallizzazione del potere e a garantire l’alternanza nella guida della cosa pubblica.
Superarlo significa, in ultima analisi, minare le condizioni stesse della libertà politica, sostituendo la logica della responsabilità con quella della fedeltà personale e quella dell’avvicendamento con quella della permanenza.
In tal senso, l’eventuale riforma non si configurerebbe solo come una scelta di opportunità, bensì come l'espressione di una gestione personalistica dell'autonomia regionale.
Il mutamento di posizione da parte di Fratelli d’Italia deve, dunque, essere letto alla luce di una tensione irrisolta tra principi e prassi, tra ideologia e governo. Il partito che, nei suoi documenti fondativi, aveva evocato l’esigenza di una democrazia più sobria, più ordinata, più regolata da limiti formali e sostanziali, sembra oggi flettersi sotto il peso delle logiche di conservazione del potere, tradendo quella stessa diffidenza verso l’establishment regionale che aveva inizialmente coltivato. Non si tratta di un semplice riposizionamento tattico, ma di una scelta gravida di conseguenze sul piano della credibilità politica e, più profondamente, della tenuta del principio rappresentativo. In ultima analisi, la posta in gioco è di ordine più ampio: non si tratta solo del futuro dei Presidenti uscenti, ma della visione stessa delle istituzioni democratiche in Italia.
Ogni deroga, ogni eccezione, ogni adattamento ad personam contribuisce a erodere la fiducia nella norma come strumento imparziale di regolazione del potere.
Quando la legge viene piegata alle esigenze contingenti del consenso, essa cessa di essere garanzia per tutti e diventa strumento per pochi. E quando il vincolo normativo perde forza di fronte alla volontà politica del momento, il rischio non è semplicemente quello di un terzo mandato, bensì quello di una democrazia che smarrisce il senso del proprio limite.
(*) Autore
Daniele Trabucco
Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario "san Domenico" di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.
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