Domenica, 04 Maggio 2025 06:32

La Biblioteca del lavoro: Joseph Ponthus In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Alla linea. Factory chronicle

Di Francesca Dallatana Parma, 4 maggio 2025 -

“Laboratorio sezionamento maiale. Lo seguo. La porta si apre.”

E si richiude alle spalle del lavoratore. Non è una galera. E’ un macello.

Sospeso il tempo futuro. Quello presente si concentra sul lavoro di fatica e di movimentazione delle carcasse, di spazzamento degli escrementi della paura scaricati dai maiali negli spazi di transizione in attesa della morte, infine la cernita degli scarti dei corpi non necessari alla lavorazione e alla vendita: zoccoli, tranci di guance, inutili brandelli di vita calpestati dalla frenesia della produzione industriale.

Il lavoro sporco puzza di sangue. Di morte violenta.

Il corpo spaccato degli animali morti impregna il pavimento. Si aggrappa alle mani. Penetra nel cervello.

E’ lavoro. Solo lavoro. Da qui si esce alla fine del turno. Il mattatoio non esce dalla memoria visiva.

E’ una sintesi blanda della seconda parte del libro di Joseph Ponthus, l’unico libro dello scrittore francese, scomparso nel 2021.

“La mattina è notte. Il pomeriggio è notte. La notte è ancora peggio.”

Di notte fa freddo, anche in estate. Alle tre, il corpo chiama a gran voce il Dio del sonno. La ragione lo caccia via. Sei sempre al lavoro quando lavori in fabbrica. Il ritmo dei turni, mattino e pomeriggio e notte, è più forte di quello circadiano che sposta la lancetta dal sonno alla veglia. Non si dorme il sabato e la domenica perché corpo e mente seguono il programma della produzione.

In fabbrica si va per soldi. Vale per tutti. Fatte le dovute differenze rispetto ad aspettative, formazione culturale, potenzialità.

Potenzialità sociali. Già. La Francia non sembra essere più generosa dell’Italia in quanto a mobilità professionale. Facile inabissarsi nei sentieri che portano verso il fondo. Difficile osare professionalmente in alto. Soprattutto se si cade dopo avere rotto il gioco dell’incasellamento sociale.

Lo dice la storia di vita dello scrittore francese Joseph Ponthus.

In fabbrica non si va per scrivere. Ma Joseph Ponthus rompe il gioco per la terza volta. E consegna il suo verbale quotidiano a “Fogli di fabbrica”, il report a presa diretta salvato nei cassetti della mente mentre “Alla linea” mani e braccia sgusciano gamberetti. Bompiani pubblica il libro in Italia nel 2022 dopo la prima edizione francese del 2019. Un caso editoriale che ha dato il via alla terza vita dello scrittore dopo la prima da studente di talento, la seconda di lavoratore privilegiato capace di rifiutare una posizione altisonante per occuparsi come educatore di vulnerabilità sociali di periferia. La terza vita si ispira alle intermittenze del cuore ed è animata dal soffio creatore del discorso amoroso che lo lega alla moglie. E’ per lei che si trasferisce nella Francia del nord dove non trova più lo stesso lavoro di educatore.

Allora, la fabbrica: spes ultima dea. Filtrata dall’ingaggio delle agenzie interinali, che garantiscono la continuità del lavoro.

Mani grosse, scrittura tagliente.

Una nota metodologica come monito per chi si avventura nella spirale incantatrice e senza ritorno del libro.

Le mani da intellettuale dalle dita fini si trasformano in pale da lavoro. Joseph Ponthus sente muscoli che non sapeva di avere. E supplica la colonna vertebrale di non provare dolore durante il turno. Lo fa con il pensiero mentre il corpo continua a movimentare carcasse, a vagare nel freddo delle celle del buio del sonno sedato.

Più le dita prendono forza e perdono l’agile nerbo delle mani da intellettuale e più la penna si affina per trasformarsi in bisturi, cutter oppure accetta. Alla bisogna.

I fogli di fabbrica che consegna al lettore sono essenziali, diretti come versi poetici, circostanziati e verificati come un pezzo di cronaca. Solo un intellettuale di cultura profonda può permettersi di contaminare stili. 

Lo stile dei fogli di fabbrica è fine e colto. Ma ha la forza di un carro armato e la velocità di una macchina da corsa. Non conosce le curve, non rispetta il limite della decenza ipocrita. Non si dice quello che succede dentro la fabbrica.  Invece, la penna scrive. Il ritmo arpiona l’attenzione e si assesta in fondo allo stomaco.

L’operaio scrive con il pensiero durante il lavoro, sul foglio bianco della memoria. Non ha tempo di trascrivere sulla carta durante le pause. Il lavoro gli impegna il corpo: gli arti, la schiena, le viscere e il cervello è al loro servizio. Ma il lavoro non ha la forza di cancellarlo. Amplifica invece l’energia intellettuale.

Il respiro ancorato ai tre quarti del petto, verso la testa; gli occhi senza lacrime; l’olfatto anestetizzato incapace di sentire l’odore di escrementi e sangue. Non è letteratura.  Questo è il lavoro nel terzo millennio per molti. Dimenticati dalle cronache fino a che non finiscono a brandelli nell’ingranaggio di una macchina oppure dissanguati in una strada di campagna, scaricati come una carcassa inutile da un padrone che li ha usati fino al momento dell’incidente. I dimenticati sono carburante per le carriere dei dirigenti. Un fenomeno trasversale ai settori, dalla produzione fino al terziario. Nessuna carriera professionale vale la pena dell’umiliazione del lavoro altrui.

Joseph Ponthus non lo scrive. Lo innesta in un germoglio laterale del pensiero.

 

Il macello, i gamberetti.

Per soldi si uccide. Si impara a farlo.

Al ritorno dal macello il lavoratore Joseph Ponthus trova ad aspettarlo dietro la porta di casa un quadrupede festoso. Lo porta al mare, a scavare buche, a raccogliere pezzi di legno appoggiati dalle onde sulla spiaggia. E’ stremato il lavoratore interinale Joseph Ponthus ma si lascia trascinare dalla coda del cucciolo liberato dal canile.

Osserva il cane che corre. E rivede il film delle camere della morte del macello. La disperazione, prima dell’uccisione. Rivede se stesso, i primi giorni del lavoro al macello e i gesti dei colleghi che gli suggeriscono come fare il lavoro sporco. La solidarietà propone un antidoto per sopravvivere. Lavorano per due per permettere al collega di entrare nella follia del ritmo. La cosa più difficile è abituarsi all’odore di morte. Neanche il tempo ha il potere di disperderlo.

Eppure i lavoratori continuano a mangiare la carne, fuori dai turni. Eppure i lavoratori si abituano al lavoro. Se necessario, imparano ad uccidere. La soglia del dolore si alza. Fino al limite dell’insensibilità.

Aushwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda un macello e pensa: sono soltanto animali.” Così Thomas W. Adorno.

Il macello è metafora potente della vita. Quella del libro è solo una fabbrica, dove ci si alterna al lavoro per alimentare conti correnti. Joseph Ponthus non si abitua al lavoro. Lo subisce. E ha bisogno della scrittura per liberarsene.

La fabbrica di gamberetti è il primo dei setting di lavoro proposti dal libro. Al freddo ci si occupa della cernita, si sguscia e si aspetta la liberazione dall’umidità e dal turno. Si ruba il cibo, si sgranocchia, si mangia di nascosto, perché il furto appare un risarcimento. E come in molte fabbriche si rischia di fare la spia al capo quando l’ultimo degli interinali assunti lavora lentamente oppure finge di lavorare. L’umidità è appiccicosa: due paia di calze di lana, dentro gli stivali di gomma condivisi con il collega del turno precedente, non sono sufficienti a preservare dalle micosi, dall’umidità insidiosa. Non è un lavoro a catena, ma allo stesso modo la negligenza di uno penalizza il collega.

Il lavoro di fabbrica è sintesi estrema delle dinamiche sociali. Gli effetti delle azioni e degli atteggiamenti sono immediati ed evidenti.  Se non si produce non si vende; se non si vende non si pagano gli stipendi. E finisce il lavoro.

 

La logistica.

Le buone fate dell’agenzia interinale – così le chiama l’autore, nei ringraziamenti alla fine del libro – sono solerti ad allertare i lavoratori in caso di cambio turno. Un cambio turno dipende dall’assenza di un collega, da un’esigenza di produzione non programmata. Per le buone fate dell’agenzia interinale significa accertarsi che un lavoratore ne sostituisca un altro e non importa chi sia e che cosa faccia. Un lavoratore è una macchina da lavoro dotata di gambe e braccia e razionalità sufficiente. Ma non è certo che la macchina da lavoro sia in possesso di mezzo di trasporto. Da qui, l’esigenza dell’organizzazione proletaria del trasporto. Un cambio turno spesso fa saltare il delicato equilibrio logistico. Qualche volta, addirittura, si arriva in taxi e si scende lontano dall’ingresso per non farsi vedere. Il costo del taxi è quasi una giornata di lavoro. Ma lo scrittore non vuole perdere il contratto.

Il trasporto solidale e collettivo verso il lavoro innesca inesplorate dinamiche di conoscenza, amplifica i ritagli di relazione che spuntano come fili d’erba nel cemento, ai margini della fatica del lavoro.

Il respiro corto della stanchezza porta la catarsi e a volte è più potente del lettino dello psicoanalista. Diversamente dalla catarsi da lettino, la confidenza eccessiva affidata ad un collega può avere riverberi negativi e a scoppio ritardato quando le risorse scarse preludono alle tattiche di espulsione.

Non lo dice, Joseph Ponthus. Lo mostra in controluce.

 

Il lavoro interinale.

Umanizzazione, non demonizzazione. Lo scrittore non mette all’indice le agenzie per il lavoro. Le osserva da vicino e con obiettività. Dietro le selezioni veloci e le telefonate inaspettate ci sono le pressioni degli uffici del personale delle aziende, recettori delle richieste provenienti dal mercato.

Il mercato delle merci, da una parte; il mercato del lavoro, dall’altra. Una parte preme sull’altra, scaricando criticità e negatività. Fino all’ultimo anello della catena: il lavoratore.

Lavorare per un’agenzia per il lavoro è l’unica possibilità di impiego, per lui intellettuale prestato al sociale e ora disoccupato, per lo scrittore dalla penna tenace e sicura. In Francia, le agenzie per il lavoro pagano gli stipendi ai lavoratori in data undici. L’autore descrive la fila e i sorrisi fotocopia dei lavoratori e degli operatori dell’agenzia all’atto della consegna dei cedolini e degli assegni. Essere qui significa essere attivi. Cioè presenti fisicamente nel mondo della produzione. E intellettualmente per la società civile, alla quale ciascun lavoratore ha il diritto e il dovere di raccontare il lavoro di fabbrica. E’ una presenza obbligata e faticosa.

Diretto come un colpo di fucile.

Scrivere in diretta che cosa succede dentro la fabbrica è più potente di una vertenza sindacale. Che è sempre a scoppio ritardato e dipende dalla negoziazione tra le parti.

La scrittura non negozia. La scrittura dice.  

La scrittura sposta il baricentro del potere verso la classe operaia. Niente è più potente della parola liberata dalle catene dei taciti accordi. Smaschera i padroni e ne sgretola il potere. Parola e cultura sono le armi più potenti che un lavoratore possa imbracciare.  “Alla linea”: la vita di fabbrica scorre sullo schermo libero della letteratura.

Joseph Ponthus, Alla linea: fogli di fabbrica, Bompiani, Milano, 2022

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(Link rubrica: La Biblioteca del lavorolavoro migrante ” https://gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=francesca%20dallatana&searchphrase=all&Itemid=374 

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