Domenica, 30 Marzo 2025 09:13

La Biblioteca del lavoro: Alessandro e Renato Gilioli In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Tutti contro uno. Infected future

Di Francesca Dallatana Parma, 30 marzo 2025 -

Il mobbing non invecchia. Affina la ferocia. Ne inventa una nuova, oltre il confine della zona di controllo codificata dalla legge. Subdolo e tenace come una dipendenza, ha il potere di donare la percezione di invincibilità al mobber, cioè a chi compie l’azione di offesa contro la vittima.

E’ una ferita, poi una cicatrice indelebile inferta da capi e colleghi. Alessandro e Renato Gilioli hanno raccolto e pubblicato nove testimonianze di quotidiana disperazione, nel duemila, con Mondadori.  Un libro di inquietante attualità, efficace e significativo grazie alle competenze complementari degli autori. Renato Gilioli è il fondatore del Centro per il disadattamento lavorativo di Milano; Alessandro Gilioli è un giornalista. La penna del giornalista è un freccia orientata con precisione al bersaglio: tracciare profili dei protagonisti e descrivere le dinamiche. La competenza del neuropsichiatra non lascia scampo ad interpretazioni: scrive il referto del danno con la certezza della verifica scientifica.

Drammatico filotto di racconti, la sequenza di storie proposte nel libro dal titolo: “Cattivi capi, cattivi colleghi. Come difendersi dal mobbing e dal nuovo capitalismo selvaggio.”

Tempi e metodi.

Il mobbing è un veleno. Getta fango sulla vita delle persone. Inquina il lavoro. La prima causa del mobbing è la miopia culturale e l’incapacità creativa di trovare soluzioni di trasformazione organizzativa. Il mobber sostituisce il “sé stesso grandioso” all’obiettivo primo dell’organizzazione: l’equilibrio.

Una delle testimonianze proposte dagli autori coglie la patologia tra le righe degli eccessi dei fatti raccontati. Lo psichiatra Gilioli la definisce con certezza: “Il Dottore (cioè il mobber di uno dei casi proposti dal libro, ndr) è un paranoico immerso nella sua volontà di dominio. Di fronte a capi così dispotici, molti subordinati finiscono per accettare i soprusi quotidiani e si trasformano in yesmen: si tratta di una resa totale, che non risolve in alcun modo il problema, anzi lo alimenta, e pone anche serie questioni di dignità personale.

Il mobbing verticale, dalla posizione gerarchica più alta verso il basso, è finalizzato ad indurre le dimissioni di lavoratori non più graditi all’organizzazione per motivi diversi, non sempre motivi razionali rispetto al raggiungimento degli obiettivi. Non sempre il mobbing verticale si verifica con azioni di efferatezza evidente contro il lavoratore. Può verificarsi anche con formule di forzata gentilezza finalizzata a creare aloni di isolamento professionale e indurre allontanamento.

Il mobbing verticale più di una volta ne induce uno di tipo orizzontale strisciante e negato o, per essere più precisi, considerato normale. Per la tendenza a ricercare le cause del mobbing nelle caratteristiche personali e caratteriali della vittima. I cattivi colleghi sono gli autori del mobbing orizzontale. Complice il clima di cameratismo oppure di falsa solidarietà in nome di ideali fumosi e teorici.

Tempo e cadenza del mobbing dipendono dall’urgenza necessaria al raggiungimento dell’obiettivo: l’induzione delle dimissioni del lavoratore attraverso l’isolamento.

Nessuna giustificazione per il mobbing, fenomeno trasversale ai settori. Lo evidenziano le nove storie vere proposte da Alessandro e Renato Gilioli.

Mobbing strategico.

Obiettivo: eliminazione del lavoratore. Gli strumenti sono degni di un canovaccio teatrale. Atto primo: la trasformazione del leader in capo, cioè figura organizzativa con il potere di impartire ordini; non disponibile all’ascolto e nemmeno al dialogo; finge di ascoltare.  Atto secondo: la creazione della squadra di supporto al mobber, composta per cooptazione o per necessità di sopravvivenza economica o semplicemente perché gregari nel profondo. Il gruppo di lavoro del capo-mobber è composto da pusillanimi yesmen.  Atto terzo: azioni di mobbing. Infine l’atto che gli autori suggeriscono alla vittima: ricerca supporto esterno di tipo psicologico e medico, azioni sindacali e legali di difesa e quando è possibile ricerca di altre possibilità di impiego. E ora e sempre: reazione in nome della propria auto-tutela. Tutto facile sulla carta. Pesante come un macigno da spingere in una strada di montagna. Questa è la realtà.

Stachanov tradito.

Stachanovista o workaholic: Alberto C. è un’aziendalista. Gli piace lavorare. Se dovesse parlare di se stesso, in prima battuta parlerebbe del proprio lavoro.

La storia di Alberto C. è significativamente titolata “Un uomo in frigorifero.” Chimico con una laurea conseguita brillantemente, Alberto C. è un lavoratore fedele all’azienda da decenni, promosso sul campo, in buoni rapporti con i colleghi, con i collaboratori e con i dirigenti. Fino all’acquisizione dell’azienda da parte di un gruppo francese. Lui rassicura i colleghi. I nuovi dirigenti sono inizialmente dialoganti. Ma qualche cosa succede. Fatti all’apparenza insignificanti. Il parcheggio a lui riservato occupato da un’altra automobile, l’eliminazione del suo nome dall’organigramma aziendale, la password del sistema informativo interno diventata inutilizzabile. In una parola: demansionamento. In un tempo lungo e cadenzato da uno stillicidio di fatti finalizzati a cancellare la sua forza contrattuale nel mercato del lavoro.

Il suo corpo reagisce ammalandosi: morbo di Chron. La sua mente sviluppa la fissazione del tentativo del recupero dei rapporti: scrive una lettera all’amministratore delegato per attivare un confronto riparatore e foriero di un nuovo inizio. Il capo non risponde. Rinchiuso nella sua torre di onnipotenza.

L’azione violenta e graduale inoculata nella vita del lavoratore coopta collaboratori. In questo caso si tratta di imbarazzati colleghi di lavoro che non possono esimersi, almeno teoricamente, dall’allineamento con la nuova proprietà per cause di forza maggiore: sopravvivenza economica personale fino al raggiungimento di una alternativa professionale.

Il frigorifero dell’attesa toglie il colore alla vivacità delle competenze di Alberto C.. L’obiettivo del mobber è annullare per sempre la possibilità di re-investire altrove la competenza costruita in azienda.

Gli autori indicano l’azione legale come strumento di tutela per il lavoratore. Che ha creduto troppo a lungo nella possibilità di continuare il lavoro nonostante le vessazioni. Il mobbing lo ha fatto ammalare e gli ha cancellato il futuro.

Consorteria para-mafiosa: Renato Gilioli la chiama così la patologia del mobber di Loredana L., direttrice amministrativa di una scuola media. Anche questa è una malattia, collegata al senso di onnipotenza del mobber e con conseguenze sociali disastrose.

La lavoratrice gestisce bilanci e flussi di denaro di una scuola. Entrate e uscite per l’acquisto di computer, libri, per le spese di trasporto per le gite scolastiche.

Loredana L. è una persona con principi morali solidi. Non si ruba, bisogna avere cura del denaro pubblico, non si favoriscono gli amici quando si ricopre un ruolo con esplicite responsabilità sociali e anche economiche.  

La scuola presso la quale lavora deve rinnovare le assicurazioni. Loredana L. propone al direttore l’analisi di diversi preventivi, alcuni convenienti rispetto alla proposta dell’attuale fornitore.

La scuola deve acquistare libri e si è sempre servita di una unica libreria. Loredana L. dialoga con le case editrici e riceve molti dei libri richiesti in omaggio oppure fortemente scontati.

La scuola organizza gite scolastiche e Loredana L. trova soluzioni di trasporto sicure e più economiche rispetto al passato. Il risultato della sua azione orientata alla razionalizzazione delle spese consentirebbe all’istituto di investire le somme risparmiate in attività complementari rivolte ai ragazzi.

Invece, la lavoratrice riceve un richiamo disciplinare.  

Il dirigente della scuola si appella a valori alti, quale il diritto allo studio. E all’abitudine, alla tradizionale modalità di gestione dei fondi pubblici. Ma ha perso di vista l’obiettività e ha perduto l’onestà intellettuale. Loredana L. ha rotto il gioco delle alleanze e forse impedito arrotondamenti economici ai protagonisti. Capita che in situazioni particolari lettere di addebito o contestazioni disciplinari siano un pretesto.

Cominciano da qui vessazioni e isolamento.

La conseguenza del mobbing sul corpo di Loredana L. è un’orticaria con angioedema che le sfigura il volto, una malattia che ha fra le sue cause anche lo stress psico-fisico. Gli autori elencano le possibilità di fuga: la prima è la richiesta di un trasferimento; la seconda è una lotta legale contro i persecutori. La prima suona come una capitolazione. La via legale e sindacale all’uscita è la più nobile sotto il profilo etico ma rischia di mettere a ulteriore dura prova la tenuta psicofisica della lavoratrice. Fuggire dalla scuola di ladri non è così facile. Il danno di Loredana L. è una macchia indelebile sul suo futuro. Loredana L. ha vinto un concorso pubblico. Con il volto sfigurato, depressa, l’hanno inchiodata con le spalle al muro alla fine di un vicolo cieco.

Un vestito vuoto.

Andrea T. suonava il pianoforte e amava leggere. Dopo il matrimonio ha voluto dare una garanzia alla nuova famiglia e ha accettato il lavoro come operaio in una industria tessile. Ha abbandonato il lavoro di meccanico, perché l’officina non aveva la forza economica per un’assunzione.

I riti di iniziazione della fabbrica sono gestiti dagli operai anziani e sono vessazioni di rara ferocia. Andrea T. è una persona riservata e delicata. Non si presta al cameratismo sguaiato. Preso di mira, ridicolizzato per la sua riservatezza e per l’introversione. I colleghi si sperimentano in un volgare e deumanizzante continuo dileggio.

Andrea T. cade in una depressione profonda. Smette di suonare il pianoforte. E di leggere.

Solo la moglie potrà raccontare allo psichiatra la sua storia di mobbing. Perché Andrea T. è diventato un vestito vuoto.

Sognare il mobbing

Quando il mobbing entra nei sogni, il lavoro è già diventato un incubo. Tommaso R. cambia lavoro a cinquantasei anni. Lascia una società di assicurazioni dall’organizzazione stabile quanto la retribuzione. Il Dottore, titolare di una società analoga del terziario avanzato, lo illude proponendogli benefit e uno stipendio più alto. Tommaso R. ogni mese acquista pantaloni di una taglia in più. E ha cominciato a sognare di farsela addosso durante le riunioni con il Dottore. Il dileggio è modulato in modo creativo, da parte dei colleghi. Nel caso di Tommaso R. la discriminazione per ageismo si incrocia ed acuisce la gravità delle vessazioni. Ad ogni riunione, ammiccamenti, sorrisi e incroci di occhiate di dileggio nella direzione del lavoratore. Nel suo cassetto, cibo spazzatura per placare l’ansia. Nei cassetti sotto chiave dei colleghi, psicofarmaci e Maalox. Nonostante siano i fiancheggiatori del Dottore. Pagano anche loro un costo alto per gratificarlo.

Eppure, per non tradire la grande bugia del sé grandioso del capo sono disposti ad affogare il collega nel fango.

La terapia.

E’ culturale, psicologica, sindacale, legale. Fuori dal confine dell’area di contagio. Gli autori dedicano ampio spazio alla fine delle nove testimonianze a filmografia e bibliografia, datate duemila. Drammaticamente attuali a venticinque anni di distanza.

Alessandro e Renato Gilioli: Cattivi capi, cattivi colleghi, Mondadori, Milano, 2000

Cattivi_capi_cattivi_colleghi_1.jpeg

 

(Link rubrica: La Biblioteca del lavorolavoro migrante ” https://gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=francesca%20dallatana&searchphrase=all&Itemid=374 

   https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30)

È GRATIS! Clicca qui sotto e compila il form per ricevere via e-mail la nostra rassegna quotidiana.



"Gazzetta dell'Emilia & Dintorni non riceve finanziamenti pubblici, aiutaci a migliorare il nostro servizio e a conservare la nostra indipendenza, con una piccola donazione. GRAZIE"