Essa non declina, ma si compie, non tradisce sè stessa, ma si realizza pienamente. È la forma storica, giuridica e istituzionale che assume il nichilismo, quando il fondamento viene negato, la verità espulsa e la legge ridotta a pura funzionalità procedurale. La democrazia è divenuta sempre di più scena terminale dell’oblio dell’essere, campo pratico del dominio della quantità sul valore, del consenso sull’evidenza, della decisione sulla giustizia.
Non si tratta di un fenomeno contingente o riformabile con accorgimenti tecnici, bensì di una metamorfosi ontologica. Il moderno ha reciso il nesso costitutivo tra diritto e verità, tra ordine politico e ordine dell’essere, tra legge e giustizia. La politica, privata della sua radice metafisica, è stata consegnata al soggetto autonomo, che, affrancato da ogni teleologia naturale e ogni misura superiore, diviene principio e fine della normazione.
La democrazia moderna non si fonda più sull’ordine, ma sull’autodeterminazione, non sulla verità, ma sulla volontà; e questa volontà, sciolta da ogni bene oggettivo, è destinata per natura a dissolversi nel nulla. Il grande rovesciamento teoretico della modernità, da "esse" a "ego", da "ordo rerum" a "libertas indifferentiae", ha trasformato la legge in decisione, la libertà in arbitrio, l’autorità in procedura. In tal modo, ciò che un tempo era concepito come riflesso della "lex aeterna", ossia del "logos" che ordina l’universo e ne fonda la giustizia, oggi è pensato come prodotto della volontà collettiva, espressione contingente del volere umano privo di misura. La "lex", da ordinamento razionale del giusto, è diventata espressione della mera tecnica normativa e della contingenza storica.
Il diritto è, in questo modo, svuotato di ogni contenuto veritativo: esso vale non perché giusto, ma perché vigente. In tale prospettiva, la democrazia cessa di essere un regime in vista del bene comune, per diventare un sistema di gestione dell’immanenza, un meccanismo autoreferenziale di produzione di norme senza verità. Come ha mostrato Carl Schmitt (1888-1985), il fondamento decisionistico dell’ordinamento democratico moderno lo rende strutturalmente incapace di riconoscere un "ordo essendi" vincolante: l’identità tra governanti e governati, fortemente criticata dal giurista tedesco, è un’astrazione priva di contenuto sostanziale, destinata a frantumarsi nella pluralità disordinata delle opinioni, in assenza di un "telos" comune. La sovranità popolare, una volta svincolata dalla legge naturale, diviene mitologia civile: il popolo è evocato, ma non governa; è invocato, ma non rappresentato.
È questo il cuore del nichilismo politico contemporaneo: non l’assenza di valori, ma l’equiparazione di tutti i valori; non il disordine caotico, ma l’ordine funzionale del nulla, dove tutto è regolato, ma nulla è fondato. La democrazia moderna, in quanto figlia legittima del razionalismo individualista e dell’immanentismo giuridico, è costitutivamente incapace di concepire un bene che non sia negoziabile, una giustizia che non sia procedurale, una legge che non sia revocabile. E poiché la politica, priva di verità, non può che risolversi in tecnica, essa viene inevitabilmente assorbita dalla macchina tecnocratica: la libertà diventa protocollo, la sovranità algoritmo, il governo amministrazione di emergenze costruite. Padre Cornelio Fabro (1911-1995) ha chiarito come la gnoseologia idealista, culminata nell’autoposizione dell’io, abbia dissolto il fondamento ontologico del diritto, riducendolo a pura fenomenologia della volontà soggettiva. La democrazia, in questo contesto, si fa forma giuridica del nichilismo pratico: essa istituzionalizza il non senso, normalizza la volontà slegata dall’essere, legittima l’indifferenza tra giusto e ingiusto.
Non è lo spazio della libertà: è, viceversa, il laboratorio del relativismo. La sua pretesa di neutralità valoriale è, in realtà, egemonia di un’antropologia negativa: l’uomo come desiderio illimitato, il diritto come soddisfacimento funzionale, la società come contratto revocabile. Questa struttura non è riformabile dall’interno, poiché le forze politiche che vi operano sono generate dalla medesima matrice teoretica. Formatesi entro il paradigma del soggettivismo normativo e del funzionalismo sistemico, esse non possiedono le categorie per concepire un ordine fondato sulla verità.
La politica, privata del proprio scopo naturale, diventa pura gestione di interessi particolari travestiti da universalità. La rappresentanza cede al lobbismo, la sovranità al globalismo, il governo alla governance. Le stesse parole, democrazia, libertà, diritti, sono svuotate, inflazionate, piegate a usi strumentali, impiegate per mascherare un ordine profondo di sostanziale plutocrazia transnazionale. Il rimedio a tale dissoluzione non può essere pragmatico, ma metafisico. Non si tratta di salvare la democrazia con più democrazia, quanto di rifondare la politica a partire dall’essere.
È necessario ripensare il diritto come partecipazione della ragione alla struttura intelligibile del reale e la legge come ordine della giustizia. Restituire al pensiero giuridico-politico la sua radice ontologica non significa restaurare forme arcaiche, ma rigenerare la civiltà stessa. Il diritto, se vuole essere umano, deve essere fondato e non solo funzionante; ordinato, e non solo operativo. Solo così la legge potrà tornare ad essere guida e non strumento, criterio e non imposizione. In questa luce, la democrazia non è da negare, ma da trasfigurare, ricondotta al suo archetipo: non governo della volontà, ma forma partecipata della giustizia.
Ciò esige il coraggio della verità, la riapertura del pensiero alla trascendenza, la riscoperta della legge naturale come limite e fondamento. In assenza di questo ritorno, non resta che il nulla in veste di ordine, il dominio della tecnica senza volto e il lento suicidio delle civiltà.
(*) Autore
Daniele Trabucco
Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario "san Domenico" di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.
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