Lunedì, 19 Maggio 2025 06:52

Eros senza fine

Scritto da Prof Daniele Trabucco

Di Daniele Trabucco Belluno, 18 maggio 2025 - Ogni atto umano trova la propria giustificazione ultima nel rapporto che intrattiene con il fine della natura umana in quanto tale, vale a dire con quell’ordine ontologico che, pur non essendo stato posto dall’uomo, può essere da lui colto come intelligibile e normativo.

Se la ragione è "participatio legis aeternae in rationali creatura", come insegna san Tommaso d'Aquino (1225-1274), allora il primo compito del filosofare sul diritto è decifrare la gerarchia dei fini impressa nell’ente-uomo dal "Logos" creatore. A chi replica che questo approccio presuppone l'atto di fede, si deve rispondere che ciò che è puramente contingente non può mai comporre da sé un sistema finalistico stabile senza cadere nel caso. In questo quadro, la differenza sessuale non è un semplice fatto empirico attestabile dall’anatomia, bensì  una proprietà formale che informa la sostanza umana e che soltanto accidentalmente si manifesta nella materialità dei corpi. Essa inaugura una polarità che non si lascia ridurre né a un dualismo funzionale, né a un mero gioco di desideri, giacché la complementarità maschio-femmina rinvia all’atto trascendente del generare, in cui la finitezza della creatura viene alla soglia dell’infinito mediante la procreazione di un nuovo essere personale.

È, dunque, costitutivo dell’essere-sessuato l’orientamento ad "alterum" in ordine alla "generatio" e tale orientamento trascende sia la volontà dei singoli, sia le contingenze della storia sociale: l’uomo può scegliere di non generare, ma non può mutare il "telos" inscritto nella propria struttura duale senza compromettere l’identità stessa di tale struttura (negare il "telos" significherebbe cadere nell'indifferentismo). Da ciò consegue che l’uso delle facoltà sessuali in modo strutturalmente sterile non è soltanto una deviazione accidentale, bensì un’implicita negazione del principio di finalità, vale a dire della dimensione metafisica che rende intelligibile ogni natura. All'obiezione che anche l'unione tra uomo e donna può rivelarsi sterile, va replicato che questa lo è patologicamente, ma non secondo l' "ordo rerum". Ricorrere al darsi concreto di inclinazioni omosessuali per legittimare l’atto che ne consegue equivale a confondere l’ordine ontologico con l’ordine fenomenico, facendo della semplice facticità il criterio della normatività. Ora, "esse ad aliquid" non coincide con "se habere ad aliquid": l’orientamento intenzionale non è garanzia di rettitudine formale; l’appetito, per il sol fatto di essere reale, non diventa immediatamente buono. Alla stessa stregua, la frequenza statistica di un comportamento non ne sancisce l’eticità: la ragione speculativa, prima ancora di quella pratica, distingue tra l’essere come perfezione ("actus") e l’essere come privazione ("defectus"); sicché ciò che è "dato" può portare con sé la cifra di una carenza.

Le argomentazioni che qualificano l’omosessualità come naturale invocano sovente tre linee speculative:

(a) una lettura biologicista della natura (ciò che esiste biologicamente, è naturale in senso normativo);

(b) una riduzione soggettivista della natura a spontaneità psicologica (ciò che sgorga dall’interiorità autolegittimante);

(c) un’interpretazione storicista della natura come funzione delle evoluzioni culturali (ciò che la società accoglie diviene di per sé naturale). In ognuno di questi casi la nozione di natura si sgancia dalla finalità intrinseca e si appiattisce sull’accidentalità temporale. Il giusnaturalismo classico, al contrario, assume la teleologia come criterio discriminante: natura è ordine in atto verso un fine, non mera fatticità.

La cecità è "in natura", cioè accade nella sfera naturale, ma non è "secondo natura", perché frustra l’ordinazione dell’occhio alla visio. Così l’atto omosessuale, pur inscritto nelle possibilità fattuali dell’uomo, disallinea la potenza generativa dal suo fine e si pone, per definizione, fuori dell’ "ordo naturae".

Giuridicamente, riconoscere la pratica omosessuale come indifferente o come diritto significa trasferire nell’ordinamento la concezione positivista per cui la legge trae la propria forza dalla volontà e non dalla verità ontologica del bene umano.

Tuttavia, un diritto che rinuncia a fondarsi sulla verità dell’uomo diviene mero strumento di potere formale: esso non comanda più in virtù di una “ratio”, ma in virtù della forza che impone l’accettazione sociale di ciò che proclama. Quando l’ordinamento positivo sgancia la sessualità dalla sua struttura finalistica (che non cancella la dimensione passionale), esso ratifica implicitamente la rottura metafisica tra essere e dover-essere, gettando le basi per la dissoluzione di ogni limite intrinseco all’agire pubblico. In ultima analisi, dunque, l’incompatibilità tra pratica omosessuale e ordine naturale non è questione di "proibizionismo morale", né di un atteggiamento omofobico (come insiste la sinistra globalista che ha perduto oramai ogni contatto con il reale), ma questione di verità dell’uomo: negare la teleologia della differenza sessuale equivale a negare che il reale sia intelligibile e normativo, ossia a spegnere la stessa luce metafisica che fonda tanto la filosofia quanto il diritto.

(*) Autore

Daniele Trabucco
Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario "san Domenico" di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.
Sito web personale
È GRATIS! Clicca qui sotto e compila il form per ricevere via e-mail la nostra rassegna quotidiana.



"Gazzetta dell'Emilia & Dintorni non riceve finanziamenti pubblici, aiutaci a migliorare il nostro servizio e a conservare la nostra indipendenza, con una piccola donazione. GRAZIE"