Domenica, 07 Marzo 2021 07:01

"Dentro la Costituzione" -  Quali Riforme Costituzionali?  Proposta per un dibattito  In evidenza

Scritto da
Firma della Prima Costituzione Firma della Prima Costituzione

Eccoci arrivati all'ottavo appuntamento con la rubrica "Dentro la Costituzione". Ogni domenica, il Professor Daniele Trabucco, entrerà tra le pieghe della nostra Costituzione per svelarne i contenuti noti e meno noti. Un'analisi critica spiegata con semplicità, partendo anche dai fatti di attualità. " Quali Riforme Costituzionali?  Proposta per un dibattito"

 A cura di Daniele Trabucco (*) Belluno 7 marzo 2021 - Ogni qualvolta il Parlamento italiano ha messo mano alla Costituzione del 1948 ha prodotto riforme peggiorative rispetto al testo precedentemente vigente. Così è stato recentemente per la legge costituzionale n. 1/2020, inerente alla riduzione del numero dei deputati e senatori la quale ha inciso negativamente sulla rappresentatività proprio in un periodo in cui la crisi della rappresentanza politica ha esautorato quasi completamente le Assemblee legislative (non solo in Italia), così è stato per la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 di modifica del Titolo V che ha perpetuato il peccato originale originante, ossia la ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni attraverso le «materie», «pagine bianche», le definiva il prof. Livio Paladin (1933-2000) negli anni ’70, riempite di contenuti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. 

     La Commissione Bicamerale Bozzi (1983-1985), la Bicamerale De Mita-Iotti (1993-1994), la Bicamerale D’Alema (1997), le bocciature in sede referendaria delle revisioni costituzionali del 2006 e del 2016, avvenute attraverso l’iter di cui all’art. 138 del Testo fondamentale, certificano il fallimento della politica sul piano delle c.d. riforme costituzionali. C’è un errore di fondo che pochi, almeno a me così pare, colgono: se si pensa di cambiare il sistema istituzionale con leggi e decreti senza un mutamento di paradigma giusfilosofico, si corre il rischio, lo scriveva acutamente Edmond Burke (1729-1797) osservando le vicende della Francia rivoluzionaria, di non pervenire agli esiti sperati dal legislatore. Del resto, dagli Stati Generali convocati il 05 maggio 1789 dal Re di Francia e di Navarra, Luigi XVI, si è giunti alla lama della ghigliottina. 

     Non si può procedere con una modifica sistematica, sia pure nel rispetto del limite espresso (art. 139 Cost. concernente la «forma repubblicana») e del limite tacito (i principi supremi dell’ordinamento costituzionale ex sent. n. 1146/1988 Corte cost.), senza rendersi conto che il costituzionalismo, nato sul mito di limitare il potere politico, altro non è che un insieme di materiali di costruzione funzionali a rendere il Testo fondamentale a «contenuto variabile». Secondo questo approccio, dunque, la Costituzione favorisce un ordinamento «modulare» derivante dalle aggregazioni e dagli spostamenti del pluralismo. La società civile, con i suoi appetiti e desideri insaziabili, è divenuta essa stessa norma per la Costituzione. La «liquidità» della normativa costituzionale, infatti, consente la conservazione di ogni contenuto e, pertanto, è considerata garanzia del mantenimento dell’unico principio considerato irrinunciabile per la democrazia procedurale moderna: l’indifferentismo. 

     Da questa presa di coscienza il necessario ripensamento del fondamento filosofico delle Costituzioni, inclusa quella italiana. Se davvero una determinazione costituzionale vuole rappresentare «l’essenza di un Paese», allora non è possibile prescindere dalla Costituzione naturale. Il Conte Joseph De Maistre (1753-1821) chiarisce molto bene questo concetto, rilevando come «nessuna Costituzione è il risultato di una deliberazione; i diritti dei popoli non sono mai scritti, o almeno gli atti costitutivi e le leggi fondamentali scritte non sono mai altro che sanzioni di diritti anteriori, di cui nulla si può dire se non che esistono perché esistono». La decisione sul contenuto di un Testo costituzionale scritto non può mai, allora, prescindere dall’ordine ontologico accessibile alla ragione umana, dal momento che la sua negazione porta alla contraddizione del pensiero nichilistico contemporaneo per cui, per l’uomo, è indifferente essere quello che è. La Costituzione naturale, pertanto, è fonte dell’ordinamento non nel senso che dalla sua volontà, dalle sue decisioni, dal suo potere derivi il diritto, bensì dal fatto che costituisce il presupposto della prudente e libera determinazione della comunità, la quale può definirsi propriamente politica soltanto se il diritto, come determinazione del giusto, è il suo principio ordinatore. 

     Solo partendo da questo nuovo paradigma filosofico-politico è possibile poi intervenire sulla Costituzione positiva. In primo luogo, mettendo la parola fine al parlamentarismo quale degenerazione della forma di Governo parlamentare «a debole razionalizzazione» accolta dal nostro ordinamento, ove ciò che conta è unicamente la permanenza di una qualunque maggioranza numerica per l’intero quinquennio di legislatura. É evidente come questo sistema abbia favorito e favorisca quelli che Carlo Costamagna (1880-1965), il giurista «politico», per dirla con le categorie di Giuseppe Bottai, definiva «i nuovi egoismi» propri del partitismo dell’arco costituzionale rispondenti a logiche e interessi estranei a quelli nazional-popolari.

La strada della Repubblica presidenziale è quella che mi vede d’accordo sia perché mette la parola fine a quell’organo «enigmatico» e «a fisarmonica» rappresentato dal Presidente della Repubblica, sia perché consente una maggiore rapporto con il corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico. In secondo luogo, abrogare le Regioni sia quelle ad ordinamento comune, sia quelle ad ordinamento differenziato, non solo perché imposte autoritativamente dal Costituente con l’elenco dell’art. 131 Cost., ma anche in ragione della loro attuale delimitazione territoriale la quale non tiene conto che vi sono sistemi produttivi ed economici che gravitano verso aree totalmente diverse da quelle incluse negli attuali confini regionali.

Che senso ha, ad esempio, dividere due territori affini come il polesine e il circondario di Ferrara solo perché in mezzo scorre il fiume Po? Oppure considerare Piacenza emiliana se da decenni l’attrazione più forte è quella di Milano? E, allo stesso tempo, ritenere Cremona lombarda se la città gravita verso sud, sull’asse padano? In terzo ed ultimo luogo, il superamento del bicameralismo paritario per l’introduzione di una Camera delle competenze. 

Un ramo del Parlamento rappresentativo delle categorie, che incorpori i diversi gruppi operanti all’interno dell’ordinamento costituzionale nel processo di formazione delle scelte politico-legislative, da un lato li indurrebbe a non esercitare ex post i loro poteri «di veto» sulle scelte medesime, dall’altro consentirebbe di frenare quella deriva neoliberista degli Stati, favorita dalla governance economica europea, che sta determinando una preoccupante mutazione antropologica: da homini juridici a homini oeconomici. È necessaria una «rappresentanza integrale» del cittadino, il quale deve esprimersi non solo attraverso i partiti, ma anche, per quanto concerne gli aspetti attuativi e specifici dell’indirizzo politico generale, attraverso le categorie (morali, culturali, lavorative). Vi è un’obiezione che la proposta di questo modello di rappresentanza deve superare. Hans Kelsen, il «padre» della scuola normativistica, si poneva il problema, nell’opera Essenza e valore della democrazia (la prima edizione è del 1920), del «quanto» ogni distinta competenza debba essere rappresentata. Si tratta, tuttavia, di una critica non così cruciale come a prima vista può sembrare.

Ha scritto un grande Maestro di Scienza della Politica, il prof. Domenico Fisichella, che «anche la rappresentanza politica di tipo democratico non è detto risponda adeguatamente ai requisiti della rappresentatività sociologica. Allo stesso modo, è lecito convenire che numerose funzioni espletate dalla rappresentanza democratica possono essere assolte anche dalla rappresentanza corporativa». Da ultimo è stato sostenuto che tale tipo di rappresentanza «organica» è realizzabile in Paesi come la Repubblica d’Irlanda e la Slovenia, che hanno comunque una popolazione inferiore ai quattro milioni di abitanti; viceversa, in Nazioni più popolose, tra cui l’Italia, risulta complicato formulare e ordinare la popolazione in categorie sociali.

In presenza di una società «liquida», in rapida trasformazione, la definizione per categoria porterebbe solo ad una forzatura e ad un irrigidimento. Una critica di questo tipo non coglie l’essenza propria della rappresentanza corporativa: rendere ogni cittadino protagonista attivo nella vita politica della Nazione. Esiste, in altri termini, una dimensione «pragmatica» del modello corporativo, una sua «ontologica duttilità», idonea a adeguarlo alla complessità delle odierne società. È questa la vera sfida che aspetta l’arte della politica…l’esatto opposto di quella attuale. 

________________________

(*) Prof. Daniele Trabucco (Associato di Diritto Costituzionale italiano e comparato e Dottrina dello Stato presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera)/Centro Studi Superiore INDEF. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico).

________________________