Giovedì, 25 Febbraio 2021 05:53

“La mala vita di Nicola Morra”. Il romanzo storico di Raffaele Vescera In evidenza

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Raffaele Vescera racconta la mala vita di Nicola Morra, un romanzo che non narra l'oblio.

 Donata dei Nobili e Matteo Notarangelo - La recente pubblicazione di Raffaele Vescera, “La mala vita di Nicola Morra” non è solo un romanzo storico, bensì un saggio sociologico, che ben descrive la struttura  del banditismo sociale.  

Il lavoro è stato pubblicato dalla Magenes. Un testo elegante, arricchito dalla prefazione del giornalista, scrittore Pino Aprile. A prima lettura,  sembra  un “romanzo storico”, che sconvolge il "Patto dell'Oblio".

Già dalle prime pagine, si ha la sensazione di vivere un avvincente viaggio nella storia risorgimentale. La voce narrante divulga la storia di un uomo del Sud, Nicola Morra, di Cerignola,  che per cinquant’anni aveva fatto tremare la Capitanata.  La storia sociale del bandito Nicola Morra ha inizio il 17 giugno del 1827, giorno della sua nascita.  Ma c’è dell’altro. Alcuni giorni prima, i suoi genitori, don Giandonato Morra e donna Anna Borrelli, cercarono di anticipare la nascita di Nicola, per evitare che avvenisse il giorno diciassette. “Nascere di diciassette portava male nel Regno di Napoli". In quest’avvenimento, c’è un’altra narrazione  del Mezzogiorno, quella magica. Anche contro il parere del colto marito Giandonato, le donne della famiglia cercarono di esorcizzare il rischio della mala nascita.  Per anticipare il gioioso momento, donna Borrelli si affidò alla medicina e alle credenze popolari. Ebbene, in queste pagine, emerge la maestria  dell’Autore, che mostra attenzione agli arcaismi della vita religiosa delle genti del Sud e all’eterno conflitto tra civiltà cristiana e mondo pagano.

Bandito sociale                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

Nicola Morra divenne un bandito sociale. Da giovane, scelse la ribellione individuale, per raddirizzare un antico torto. Un giorno di novembre, Giandonato Morra, suo padre, era uscito a caccia con l’amico, il possidente Nicola Cannone. In un certo luogo della campagna, videro un uomo barbuto, che  li sbarrava la strada con un fucile. Dopo un breve e intimidatorio dialogo, il bandito minacciò i due amici. L’offesa non produsse sottomissione. Spararono dei colpi e Giandonato venne colpito. Passarono gli anni.  Da allora, Nicola era schiacciato da un opprimente pensiero che lo tormentava: vendicare il padre. Egli viveva per ristabilire la giustizia, per “aggiustare" l’assassinio ingiusto del padre.  Durante la sua adolescenza, soggiornava  a Lucera e a Cerignola e si aggirava  nelle campagne circostanti. In quelle comunità rurali, Nicola costruiva la sua carriera di ribelle-bandito. Il giovane Morra non era un contadino o un gentiluomo caduto in miseria o un delinquente comune, bensì un ribelle, che disdegnava chinare la testa. La sorte lo volle un bandito sociale "predestinato", condizionato da un tratto caratteriale marcato da ribellismo individuale. 

Negli anni, Nicola non divenne un razziatore, un rapinatore, un brigante, un rivoluzionario. Il giovane Morra visse da bandito gentiluomo, sempre disponibile per la sua gente, figlio del suo tempo storico, legato alla mondo della tradizione. In giovane età, divenne un fuorilegge, omicida per le autorità statale e giustiziere per il suo popolo.

Il destino segnato

Nicola venne assunto dalla vedova Specchio per fare il guardiano a cavallo delle sue terre e delle sue bestie. Una sera vide una mandria che pascolava senza alcun permesso. Nicola chiese spiegazioni ai bovari, i quali dissero: "Stiamo pascendo le bestie di don Luigi, per ordine del suo massaro, Vincenzo Mazzocco". Nicola esigeva delle spiegazioni. In quel mondo, quel comportamento era un affronto. Nell'attesa, tenne con sé una vacca, che avrebbe ridata al massaro. Il giorno dopo, il massaro incontrò Nicola, che cercava di ristabilire le vecchie usanze delle scuse e dell'onore. I due si affrontarono con minacce terribili e si diedero appuntamento di morte sulla strade a una cert'ora di notte. Tra gli uomini di campagna, l'uso delle armi rientrava nel loro sistema di valori. La difesa dell'onore, mediante duelli, legittimava la violenza privata. Nella cultura rurale, i pastori, i braccianti e i ribelli prima di mettere mano alle armi si affrontavano con "il parlare"  una loro lingua: "u serpntine", un modo di comunicare in dialetto per mostrare la propria autorevolezza e la durezza del loro possibile agire violento. Quel parlare tra Nicola e Vincenzo non era comune e presto avrebbe svelato agli ignari il vero significato dei termini, ai più incomprensibili. Nicola non sopportò l'affronto e l'offesa del padre defunto fatta dal massaro. La notte andò all'appuntamento. Nella sua mente sostituì "la figura del vaccaro-massaro con quella dell'assassino di suo padre", per scaricare la sua antica rabbia. 

Quella sera, il massaro Mazzocco fu ucciso. Il suo corpo rantolò sulla terra, bagnando di sangue l’arcigno prato. Dopo alcuni consulti familiari, Nicola si consegnò ai gendarmi. Ci fu il processo e venne condannato a 25 anni di lavori forzati. Così iniziava la "carriera" del bandito sociale Nicola Morra. 

Il bagno penale

Nicola scontava la sua pena ai lavori forzati sull'Isola di Procida. Il romanziere, Raffaele Vescera, conduce, con abilità, il Lettore negli accadimenti della storia risorgimentale. E lo fa, descrivendo la composizione sociale e politica dei carcerati. Descrive i "due partiti" , quello dei signori politici, liberali, organizzati nelle società segrete della carboneria, e quello dei guappi, ladri, assassini, organizzati nella" società dell'umiltà ", la camorra, altrettanto segreta". Nicola, che non era né un delinquente comune né un rivoluzionario ma un istruito uomo di mondo, non faticò a capire le dinamiche sociopolitiche che governavano il bagno penale e presto lo Stato unitario italiano. In queste pagine del romanzo, l'Autore non esita ad accompagnare il lettore nel mondo massonico, che tanta influenza ebbe nel disgregare il regno del re Francesco II. A Nicola venne chiesto di affiliarsi ai fratelli massoni, per aiutare i Buoni Cugini Carbonari. Per farlo, doveva giurare nel nome di Garibaldi e di Mazzini a gloria del Grande Architetto dell'Universo e infiltrarsi nella società camorrista per irrobustire i rapporti tra le due realtà segrete. A parlargli erano due liberali, Luigi Settembrini e Silvio Spaventa. Tramite questi due protagonisti, il romanziere Vescera svela i segreti dell'invasione del Regno delle Due Sicilie, pianificata dalla massoneria inglese con il favore di Salvatore De Crescenzo, capintesta della camorra di Napoli, accettata ed eseguita dal ministro borbonico Liborio Romano. Gli intrighi erano, ormai, conclusi. I camorristi dovevano garantire l’entrata pacifica di Garibaldi a Napoli, lasciata dal re Francesco II per non coinvolgere la popolazione in un’immane carneficina. In cambio, ai camorristi, tra le diverse concessioni,  venne affidato il controllo e la gestione del porto di Napoli. 

Il brigante Crocco

Fuoriuscito dalla galera, Nicola non dimenticò il falso testimone, che lo fece condannare. Lo inseguì, finché non lo seppe morto. Nel frattempo, si rese colpevole di diversi reati, tra cui  quello di dileggio alle autorità e sovversione libertaria, mentre la sua Patria veniva invasa da soldati piemontesi, inglesi e mercenari ungheresi. La malasorte e le tristi vicende di conquista sabauda lo spinsero nei boschi lucani, dove incontrò il generale dei briganti Carmine Donatelli Crocco. In queste parte del romanzo, lo scrittore Vescera si svela e scrive incantevoli pagine di revisionismo storico, che il Lettore non si può privare di leggere. In quegli anni, Nicola aveva accumulato una grande somma di denaro. Una sera, ferito al braccio, trovò ospitalità e cura in casa del panettiere Giovanni De Nittis. Dopo un lungo parlare, Nicola decise di consegnarsi all’intendente, in cambio di riconoscenza. Al panettiere, invece, affidò il suo tesoro, che sarebbe stato investito. Il primo ottobre del 1861, Nicola fu condannato a 18 anni di ferri da scontare nel bagno penale di Santo Stefano dove rincontrò il capo brigante Crocco.  Con la famiglia De Nittis, Nicola ebbe forti contrasti, a causa di 5000 ducati non restituiti. Ostilità che gli provocarono non pochi problemi giudiziari. Per sfuggire all'ingiusta galera, l'ormai anziano bandito "galantuomo" ebbe anche un'esperienza politica. Il partito socialista lo candidò nel collegio elettorale di Foggia, contrapponendolo al conservatore, Vincenzo De Nittis, già sindaco della Città. Ma anche allora non sfuggi allo strapotere delle "pagliette" con l'impunità parlamentare. La malasorte non lo fece eleggere, a causa di uno scarto di 41 voti e brogli elettorali. Per il bandito gentiluomo Nicola, quelli che restarono furono anni di processi e galera. Nel tribunale dovette difendersi dall'abuso politico e “scientifico” del lombrosiano Enrico Ferri, avvocato, ormai, del parlamentare Vincenzo De Nittis, figlio di Giovanni. 

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